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Attilio Scarpellini

Fermo-immagine. 

 

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Uscire dal tempo, entrare nel tempo[1]

 

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Qualche riflessione sul "tempo interiore" dell'opera a partire dal racconto di Borges "Il miracolo segreto"

 

"Le temps vu à travers l’image est un temps perdu de vue. L’être et le temps sont bien différents. L’image scintille éternelle, quand elle a dépassé l’être et le temps" 

(René Char – Feuillets d’Hypnos) 

 

"In realtà, con buona pace di Craig (e co.), vi è un istante in cui il corpo sulla scena e l'arte coincidono e quell'istante si chiama teatro. Tutto il resto è spettacolo."

(Claudio Morganti - Verfremdung. Bombardare la quarta parete)

 

The story is well know of the monk who, going into the wood to meditate, was deteined there by the song of a bird for three hundred years, wich to his consciousness passed as one hour.

( J. H. Newmann, A grammar of assent, nota III - apposto da Borges in exergo al Miracolo segreto)

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All’inizio: Daria Deflorian legge il racconto di Jorge Luis Borges, Il miracolo segreto[2]…

 

Pavel A. Florenskij

 

 

 

 

 

Riassunto

Nel racconto di Borges, Il miracolo segreto, uno scrittore boemo che sta per essere fucilato dai nazisti ottiene da Dio la grazia che il tempo venga rallentato e i pochi istanti che ha ancora a disposizione si trasformino nell’ anno durante il quale potrà portare a termine la sua opera incompiuta. Il tempo che Dio concede a Hladik in realtà è quello di una “pesante goccia di pioggia” che gli sfiora una tempia e rotola sulla sua guancia nell’istante fatale in cui il plotone sta per fare fuoco. Ma il cronometro puntuale del “tempo reale” è ricacciato ai margini dell’immagine: dentro l’immagine, il tempo non si muove alla stessa velocità che fuori da essa, l’universo fisico – come scrive Borges – si arresta; il braccio del sergente che sta per compiere l’ordine di esecuzione “eternizzava un gesto inconcluso”; “Su un mattone del cortile un’ape proiettava un’ombra fissa. Il vento s’era arrestato come in un quadro.”[3] Il tempo non si ferma, è Borges stesso (cioè Jaromir Hladìk) a precisarlo: il tempo non si è fermato, perché non si è fermato il pensiero, è stato trattenuto sull’orlo dell’accadere, in attesa di precipitare nella storia, assieme al resto della storia: “Un anno intero aveva chiesto a Dio per terminare il suo lavoro: un anno gli concedeva l’Onnipotente. Dio compiva per lui un miracolo segreto: l’ucciderebbe, all’ora fissata, il plotone tedesco, ma nella sua mente, tra l’ordine e l’esecuzione dell’ordine, trascorrerebbe un anno.”[4]

Finalmente il dramma è terminato, non manca che un ultimo ritocco al quadro, soltanto un aggettivo: lo scrittore lo trova, la goccia d’acqua riprende a scivolare sulla sua guancia – il plotone fa fuoco, Hladìk urla “il principio di un grido” e cade fulminato da una quadruplice scarica.

 

 

Sicuramente tutto, e non solo il finale, nel racconto di Borges  parla del tempo: esso inizia con un sogno, e dunque in una condizione temporale notoriamente contratta, intensificata, dove il tempo non scorre come scorre nella veglia, con la stessa inesorabile puntualità – il tempo degli orologi che dettano la nostra giornata – ma in una soggettività che non conosce limiti al suo esterno: sognando attraversiamo interi mondi, proprio come Hladik nel racconto di Borges, che ci vengono incontro come su un tapis roulant e si concentrano in un tempo oggettivo estremamente breve, di certo più breve dell’impressione che ci lasciano alcuni sogni di aver vissuto intere vite. Borges in letteratura, come Tarkovskij al cinema (nessuno, diceva Ingmar Bergman, filma i sogni come Tarkovskij)  è un grande narratore di sogni perché riesce a evocare la mancanza di confini della scena spazio-temporale in cui si svolgono… una lunga partita a scacchi, disputata non da due persone ma da due famiglie ostili, i cui pezzi e la cui scacchiera si trovano però in una torre segreta, mentre un orologio suona l’ora di una mossa decisiva che non può essere ulteriormente ritardata. Quest’ora non sta nel tempo ordinario, ma nella contrazione simbolica che il sogno opera sul tempo, in quest’altro tempo, parallelo a quella che chiamiamo Storia, che gli aborigeni australiani chiamano “tempo del sogno” e al quale, diversamente da noi, attribuiscono una grande importanza come esperienza generativa. Dalle sabbie di un deserto piovoso in cui corre cercando di ricordare le regole degli scacchi, il sognatore del Miracolo segreto si risveglia sotto il fracasso di una vera pioggia, nella sua casa praghese, mentre dalle finestre sale il rumore dei blindati tedeschi che stanno entrando a Praga: una piccola scheggia di realtà (di reale, direbbe Lacan) resta impigliata nel trapasso dal sonno alla veglia, come una zeppa che qualcuno infila sotto una porta lasciando aperto il varco tra le due dimensioni che si dovrebbe richiudere al risveglio. La dove tutto si dissolve, tutto invece si realizza, là dove tutto sembrava finire, tutto ricomincia, qualcosa nell’evanescenza della soglia unisce i due immaginari: un’immagine fuori controllo. Come quella raccontata da Freud e poi ripresa da Lacan del padre che, addormentatosi nella stanza attigua a quella in cui si svolge la veglia funebre del figlio, sogna il bambino che gli dice: “Padre, ma non vedi che sto bruciando?” e una volta sveglio si rende conto che il vecchio incaricato di vegliare il figlio si è a sua volta addormentato e il cadavere ha preso effettivamente fuoco. Questa immagine fuori controllo, questo significante animoso che trapassa dall’immagine alla materia – o viceversa -nel racconto di Borges è la pioggia, l’acqua, il liquido, lo stesso elemento che ritroviamo nella pesante goccia di pioggia che scivola dalla tempia e si ferma sulla guancia del condannato nella parte finale del testo. La mattina del 14 marzo 1939 è la storia stessa che entra nella vita di Hladik, cambiando il suo destino e accelerando il momento della sua morte. Di nuovo il tempo: quello riscritto dalla sua esecuzione, fissata per il 29 marzo, il tempo che resta, pochi giorni di vita, durante i quali lo scrittore vive centinaia di morti, con quel lavoro di anticipazione immaginativa che precede tutti gli appuntamenti, belli o brutti che siano, del quale Jaromir diventa un accorto stratega, inventando particolari sempre più atroci della propria morte futura per esorcizzarne l’evenienza, cioè ribaltando quell’arte della previsione che il pensiero ebraico interdice, proprio perché riempie arbitrariamente le possibilità che nel tempo sono aperte, chiudendo una per una le mille porte attraverso le quali il Messia (colui che per eccellenza stravolge l’ordine del tempo) potrebbe passare. E poi ancora il tempo, o meglio il suo contrario, l’Eternità, è uno dei contenuti dell’opera di Jaromir Hladik, autore di un compendio delle diverse eternità ideate dagli uomini.

 

 

Ci sono dunque tre, se non quattro tempi che si muovono, si danno il cambio e si scontrano nel racconto borgesiano:

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  • il tempo ordinario scandito dagli orologi, che è uno dei tessuti astratti della nostra vita, che scorre come un flusso irreversibile, senza mai tornare su se stesso (una sola ripetizione, dice infatti Borges, basterebbe a dimostrare che la sua realtà è un inganno);

  • il tempo della Storia che con il suo kairos crudele irrompe e deforma il tempo ordinario, anticipandone e svelandone il vero orizzonte soggettivo: la morte; Senza di essa, infatti, il tempo sarebbe insensato: è la morte che gli dà forma. La morte è un indiscutibile principio formale. Come diceva André Malraux, la morte dà forma alla vita e all’amore, trasformandoli in destino.

  • il tempo dell’eternità che non può essere ridotto a una semplice negazione del tempo, ma che, come spiega giustamente Borges, è un’idea (nel senso che ogni idea dell’eterno è un’idea del tempo)

  • il tempo del sogno con la sua drammaturgia simbolica e ipersoggettiva – ma anche con il suo arcano materialismo che ricongiunge la vita del soggetto a quella dell’universo, oltre il tempo e oltre la storia. Un tempo che non scorre in un modo uniforme ma, diceva il padre Pavel Florenskij nel suo saggio sull’icona Le porte regali, secondo una “prospettiva inversa” correndo verso il presente.  E’ in sogno che la nitida voce angelica– che se non appartiene a Dio, viene da lui – annuncia al protagonista che la sua grazia, il suo tempo gli sono stati concessi

 

 

e infine, forse è il caso di dire dulcis in fundo, risoluzione singolare (perché legata al particolare Dàimon di Jaromir Hladik che è la scrittura drammatica) di tutti questi tempi:

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  • il tempo della grazia e del miracolo che, senza intaccarne la sostanza oggettiva, ne cristallizza il movimento nella durata di un’immagine, trattenendone l’accadere, quasi frenandone  l’entropia, dilazionando e approfondendo l’istante dell’agonia, quel momento immediatamente precedente la morte in cui vuole una diceria che non si sa come abbia potuto affermarsi - ma lo ha fatto - tutta le immagini della nostra vita ci passerebbero davanti…

 

 

(Due riferimenti si incrociano per descrivere questo processo di ricapitolazione. Il primo si trova negli Anelli di Saturno di W.G. Sebald, nel capitolo dedicato al medico settecentesco Thomas Browne: “…per Thomas Browne nulla è destinato a durare. Su ogni nuova forma già si allunga l’ombra della distruzione. La storia di ogni singolo individuo, di ogni collettività e del mondo intero non descrive infatti un arco sempre più ampio e sempre più bello, bensì una traiettoria che dopo aver toccato lo zenit, volge alle tenebre. Per Browne questa sua scienza, che prevede la scomparsa nell’oscurità, è inseparabilmente legata alla fede nella Resurrezione, fede secondo cui quel giorno, quando – come a teatro – gli ultimi rovesciamenti di scena si saranno compiuti, gli attori si presenteranno ancora una volta tutti sulla ribalta, to complete and make up the catastrophe of this great piece.”[5] L’altro riferimento è una considerazione di Giorgio Agamben sulla figura che sopravvive alla fine se non del mondo, di un mondo: “Nella teologia cristiana, questa figura è la ricapitolazione. ‘Per l’economia della pienezza dei tempi, tutte le cose si ricapitolano[Efes. 1,10].

Solo attraverso una ricapitolazione qualcosa – un certo tempo – può essere ‘ultimo’, può dirsi compiuto. Come si racconta che davanti agli occhi dell’agonizzante tutta la vita si riepiloghi – si ricapitoli – in un attimo.”[6])

 

Cosa accade in fondo tra le nove e le nove e due minuti del 29 marzo 1939?

 

Niente. Una pesante goccia di pioggia scivola dalla tempia alla guancia di un uomo che sta per essere fucilato.

 

Un lacrima distillata dall’atmosfera (dalla mutevolezza del “tempo”) riga il volto di un uomo che ha paura di morire.

 

In più di  quarant’anni che leggo questo racconto – che a quindici trovai su una bancarella all’interno di una rivista popolare che si chiamava “Romanzi e racconti” – che lo rileggo e che lo racconto a mia volta, ho sempre visto nella goccia una lacrima e in Jaromir Hladik  un uomo che piange.

 

Una goccia scivola sulla guancia di un uomo. Ma – si ferma lì. E assieme ad essa l’intero universo fisico, dice Borges, si arresta. Non è l’eternità, ma come scrive il narratore argentino, è un’eternizzazione, una sospensione dell’azione fisica che sta per essere compiuta, una paralisi dell’accadere: “Le armi convergevano su Hladik, ma gli uomini che stavano per ucciderlo, restavano immobili. Il braccio del sergente eternizzava un gesto inconcluso. Su un mattone del cortile, un’ape proiettava un’ombra fissa. Il vento s’era arrestato come in un quadro. Hladik tentò un grido, una sillaba, la torsione di una mano. Comprese che era paralizzato. Non il più tenue rumore gli giungeva dal mondo impedito.” Questa paralisi del movimento ha anche qualcosa di spettralmente angosciante, per il lettore e per il protagonista che, infatti, per prima cosa  dice a se stesso: sono morto e sono all’inferno. Il suo corpo è escluso, assieme a tutti gli altri, staccato dalla sua mente, come in un angosciante film di Julian Schnabel che si chiama Lo scafandro e la farfalla, ma alla fine Hladik si stupisce di non provare alcuna stanchezza e neppure la vertigine della sua lunga immobilità: è trapassato in un altro stato dell’essere. E’ in quello che, per dare un titolo a questo seminario, ho chiamato un fermo immagine. Una mano invisibile, un potere segreto, ha interrotto la concatenazione degli eventi, sospendendo non il tempo, che nel pensiero continua a fluire, ma il suo movimento esterno, la sua spazializzazione, la sua inerzia gravitazionale e in un certo modo il suo ordine in rapporto al mondo.  Immaginiamo di prendere un grave e di lasciarlo andare, la sua caduta, come sappiamo, è inevitabile. Se lo lanciassimo in aria ed esso ricadesse a terra non riusciremmo  a cogliere il “momento” in cui rimane sospeso. Ci sarebbe soltanto, spiega Ananda K. Coomaraswamy in Tempo ed eternità, un “punto senza durata nel quale si congiungono l’ascesa e la discesa, il passato e il futuro”[7].  E questo punto in cui avviene l’inversione non sarebbe “un arresto reale più di quanto lo sia l’uno o l’altro degli indefiniti punti della traiettoria in cui l’oggetto avrebbe potuto arrestarsi – anche se non l’ha fatto.”[8] Anche lo stato di quiete è nel tempo: non c’è arresto reale.  Immaginiamo invece che, lasciandolo cadere, l’oggetto si fermi miracolosamente a mezz’aria: finora questa possibilità anti-gravitazionale non è mai stata  fisicamente esperita – forse, ma  solo figurativamente, in certi momenti della danza. Anche negli ambienti dove l’attrazione gravitazionale è stata annullata o non esiste, in laboratorio, su una navicella spaziale o sulla luna, l’oggetto non cade, ma ugualmente non si arresta, fluttua nel vuoto. Nelle immagini da cui è tolta la materia (o nelle quali anima e materia si identificano, come nei sogni) questa sospensione diviene possibile: la capacità di concentrare il tempo in un istante – un istante decisivo, come lo chiamava Henry Cartier Bresson - sospendendo il movimento di un oggetto o di una figura, fin dall’inizio ha fatto parte dell’aura magica e demoniaca che circondava la nascita e l’affermazione del mezzo fotografico. C’è una fotografia  scattata nel 1889 da Evelyn Carey a un ponte in costruzione in Svezia, dove, tra i due tronconi del ponte non ancora uniti, si vede fluttuare nell’aria un pezzo di legno che si è staccato dalle impalcature: fermo- e per  ogni spettatore passato, presente e futuro di questa immagine, “eternamente fermo” - sospeso a qualche metro dall’acqua, tra il ponte, la città che si intravede sullo sfondo e il barcone che sta per arrivare. Questa caduta, come quella del tremendo volo a rovescio del falling man fotografato da Richard Drew l’11 settembre del 2011, non verrà mai ultimata. Come del resto la parabola accennata dal goffo salto con cui un uomo cerca di superare una pozzanghera in un celebre scatto di Cartier Bresson: noi possiamo solo prevedere che lo  slancio del saltatore (a differenza di quello aereo della ballerina dipinta che si intravede sul manifesto incollato al muro che gli sta alle spalle) non sarà sufficiente a superare la pozzanghera, ma di questa caduta non resta traccia nella fotografia che è un frammento estrapolato dal corso del tempo, privato di un prima e di un dopo, che è pura e perciò paradossale contemporaneità. Anche la fotografia eternizza un gesto inconcluso, come quello del sergente che nel racconto borgesiano resta con il braccio alzato, sempre sul punto di (questo braccio che non si abbassa è, nella sua forma pura, cioè puramente miracolosa, quello di Abramo fermato dall’angelo mentre sta per sacrificare Isacco: non dall’azione dunque, ma dalla sua interruzione può scaturire la salvezza[9]).  Borges ne è talmente consapevole che descrivendo i preliminari dell’esecuzione di Hladik li paragona appunto ai “vacillamenti preliminari ordinati dai fotografi”… un po’ più a destra, un po’ più a sinistra, un passo in avanti, uno indietro… il condannato si deve mettere in posa, lasciarsi inquadrare dal mirino degli esecutori: il verbo to shoot, in inglese, indica  tanto l’azione di sparare quanto quella di scattare.

 

L’istantanea e la morte sono imparentate, entrambe braccano nel tempo un’immagine definitiva. “In fondo, dice Barthes, ciò che io ravviso nella foto che mi viene fatta, è la Morte: la Morte è l’eidos di quella foto.”[10] Per molti altri versi il miracolo borgesiano si presenta come una risoluzione plastica, in termini quasi compositivi: ogni indizio di movimento è toccato da uno sguardo di medusa, l’ape proietta un’ombra fissa, il vento si arresta, il fumo della sigaretta non la smette di disperdersi, ma anche il suono, il rumore, il grido sono impediti. Il mondo è trattenuto sull’orlo di un precipizio. C’è un potere che frena, per usare la misteriosa espressione che San Paolo utilizza nella seconda lettera ai Tessalonicesi in relazione alla venuta dell’Anticristo, anche se, a ben vedere, si tratta di un potere impotente perché all’ora fissata il plotone sparerà comunque e soltanto nella mente del condannato tra l’ordine e l’esecuzione trascorrerà l’anno che gli è stato concesso. Il tempo riprenderà la sua corsa, non l’ha mai veramente interrotta se non, appunto, nella mente del povero Jaromir che, infatti, lavora al compimento del suo dramma I nemici con lo strumento più intenso e più fragile che esista: la memoria, l’unica scrittura di cui può disporre, scrivendo nel tempo (con la materia stessa del tempo) poiché lo spazio (il gesto, il movimento, il corpo) gli è precluso. Lo studioso praghese della qabbalah, in altre parole, ritorna a quel tempo in cui la torah e la preghiera istruivano gli ebrei alla memoria, per liberarli, dice Benjamin, dal “fascino del futuro”. Vi ritorna proprio mentre il futuro distilla sul suo volto la sua ultima goccia, la sua ultima lacrima…

 

Hladik lavora platonicamente (o socraticamente), su se stesso, nel tempo separato dell’opera, questa ars longa che nel suo caso riesce a coincidere con una vita brevis – di più, con il suo istante più fatale. Lavora non per la posterità, dice Borges, né per Dio, dei cui gusti letterari e drammaturgici, in effetti, non sappiamo nulla.

Ovviamente, siamo anche nel campo bergsoniano della mémoire pure (più che in quello proustiano della mémoire involontaire) che si dischiude nel parossismo del conflitto tra vita activa e vita contemplativa: Jaromir Hladik lavora, e  il termine suona contraddittorio, la sua opera sembrerebbe iscriversi più nella dimensione della potenza inoperosa che in quella della realizzazione e dell’atto. Più che lavorare, dunque, scrive:  scrive come altri sognano di scrivere – Pasolini alla fine dei Racconti di Canterbury: “perché ostinarsi a fare delle opere quando è così bello continuare a sognarle?” - interamente, ma anche forzosamente, spostato sul terreno negativo della contemplazione.[11]

 

L’opera d’arte secondo Deleuze resiste al tempo (alla morte ma anche al paradigma dell’informazione),  ma d’altra parte viene completamente travolta dal ritorno della sua onda catastrofica: to complete and make up the catastrophe of this great piece…

 

Ma non è così in fondo che tutta l’arte lavora, anche quella meno segreta, più plateale, pubblica, teatrale - non è in  questo sdoppiamento del tempo della vita e della storia che non cambia nulla nel corso degli eventi, anche quando li incide e li apre? Non c’è un esiziale scarto temporale che, inserito, nelle particelle re, ri, rap della parola rappresentazione - ré-presentation, vor-stellung - denuncia la distanza tra un tempo della vita e della presenza e un tempo dell’opera e della rappresentazione? Per essere più concreti: dove siamo e chi siamo nel momento in cui apriamo la scena dell’immaginazione, ritagliando nel “tempo reale” un recinto, una pausa, una bolla, un fermo immagine: dove siamo e chi siamo noi qui, intenti a parlare, mentre il plotone d’esecuzione del mondo si è provvisoriamente immobilizzato nel cortile del Castello?[12] Dove è, chi è, e cosa fa, Claudio Morganti quando nell’Amara sorte, il suo ultimo spettacolo, riavvolge il nastro del tempo sulle parole del passato eternizzate da un registratore che oggi, vent’anni dopo il debutto del suo lavoro ispirato all’Ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, diventano quelle del passato di un passato[13] -  proprio come Hladik che torna sulla pagina già scritta per riscriverla in segreto? Nell’allegoria dell’opera d’arte che Borges ci propone nel suo racconto, il centro vitale – è il caso di chiamarlo così, visto che di vita e di morte si tratta – è dato da un anacronismo, dall’impossibile, eppure avveniente, coabitazione tra due tempi, uno esterno, l’altro interno. “Non come il tempestoso Borea – scrive il padre Florenskij – ululerà il Tempo mordace, ma come soave Zefiro che accarezza il pensiero. Il Tempo che tende all’esterno spazza via e distrugge. Ma quello che si raccoglie all’interno muove e vivifica.”[14]

 

Una breve digressione sul potere e l’impotenza: l’immagine contemporanea, tecnologicamente riprodotta e manipolabile, può, ormai facilmente, creare l’apparenza di una reversibilità del tempo. Nel film collettivo sull’11 settembre, c’è un episodio girato da Youssef Chaine, un regista egiziano oggi scomparso, dove il cineasta stesso mostra al fantasma di un giovane soldato il filmato della distruzione delle Torri gemelle. “Perché non riusciamo a capire, gli dice, che il tempo non torna mai indietro?” “Se solo fosse possibile…” sospira allora il ragazzo. “Io posso farlo!” esclama Chaine e con il tasto del reverse riavvolge il filmato finché dalle rovine non risorgono i grattacieli intatti. “Premi un tasto – gli dice allora il ragazzo – ed è come se niente fosse mai accaduto. Funziona anche per resuscitare i morti?”

 

Se non con la stessa tecnica, è già con lo stesso  spirito di onnipotenza tecnologica che venne girata la celebre sequenza dei Dieci comandamenti di Cecil B. De Mille in cui le acque del Mar Rosso si aprono per far passare Mosé e il suo popolo inseguiti dall’esercito di Faraone. L’angelo del cinema, come lo chiama Jean-Luc Godard, stava già mobilitando la sua potenza per rendere visibile ciò che si sa non essere possibile: quella risoluzione del tempo nello spazio che chiamiamo miracolo. Il miracolo di cui Hladik è l’unico beneficiario non ha né la folgorante potenza dei miracoli biblici, che in un secondo sbaragliano e ricompongono l’intero ordine delle cose, né l’efficacia fantasmagorica di quelli hollywoodiani che Joseph Roth considerava anti-cristici quando accusava il cinematografo di aver ridestato le ombre dell’Ade e di aver popolato le strade d’Europa con orde di fantasmi, grazie ai “miracoli dello schermo” - e in mancanza di una vera capacità di resuscitare i morti.

 

“E, se siamo riusciti a far sì che delle ombre si muovano come uomini viventi sullo schermo del cinema e addirittura che parlino e che cantino, tuttavia i loro movimenti, le loro parole e il loro canto non sono affatto autentici e sinceri; piuttosto questi miracoli dello schermo significano solo che la realtà che imitano così illusoriamente non era affatto difficile da imitare perché non è una realtà. Sì, gli uomini reali, i viventi, erano già divenuti così incerti che le ombre dello schermo dovevano apparire reali.” (Joseph Roth, “Hollywood, l’Ade del mondo moderno” in L’Anticristo[15]).

 

 

 

il miracolo

 

Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia (in Angelus Novus, saggi e frammenti) tesi 17 “Al pensiero non appartiene solo il movimento delle idee, ma anche il loro arresto. Quando il pensiero si arresta di colpo in una costellazione carica di tensioni, le impartisce di colpo un urto per cui esso si cristallizza in una monade. Il materialista storico affronta un oggetto storico unicamente e solo dove esso gli si presenta come monade. In questa struttura egli riconosce il segno di un arresto messianico dell’accadere o, detto altrimenti, di una chance rivoluzionaria nella lotta per il passato oppresso. Egli la coglie per far saltare un’epoca determinata del corso omogeneo della storia, come per far saltare una determinata vita nell’epoca, una determinata opera dall’opera complessiva. Il risultato del suo procedere è che nell’opera è conservata e soppressa l’opera complessiva, nell’opera complessiva l’epoca e nell’epoca l’intero decorso della storia. Il frutto nutriente dello storicamente compreso ha dentro di sé il tempo, come il seme prezioso ma privo di sapore.”

 

In ogni miracolo c’è l’interruzione di un’azione o quello che Walter Benjamin definisce un “arresto messianico dell’accadere”, in ogni miracolo gli effetti del tempo vengono sospesi e riappaiono cambiati di segno – il miracolo è opposto a quel movimento grave e inesorabile che i lettori della tragedia greca conoscono con il nome di Ananche, necessità, non è necessario, è un atto di arbitraria prodigalità divina: Abramo sta per sacrificare Isacco per obbedire alla divinità quando un angelo ferma la sua mano, gli egiziani stanno per raggiungere e travolgere gli ebrei in fuga quando le acque del mare si aprono e lasciano passare i fuggitivi, per poi richiudersi sugli inseguitori; un gesto di Cristo scioglie le membra legate di un paralitico o riapre gli occhi di un cieco nato che di colpo vede intorno a sé uomini alti come alberi; uno squillo di tromba e le mura di Gerico cadono in pezzi come se la loro decrepitezza avesse subito un’improvvisa accelerazione (come in un time-lapse fotografico). Tutto questo avviene bruscamente, in un istante, come se il tempo fosse un disegno fatto sull’acqua che una mano smuove e cancella, all’opposto di quel processo doloroso e naturale, per quanto prodigioso, che è la metamorfosi. Se il miracolo restituisce è perché cancella, se riapre il futuro è perché interviene sul passato – sul passato oppresso, come lo chiama Walter Benjamin. E per farlo si serve del varco dell’istante, esso è decisione nel presente, una renovatio della temporalità, un corto-circuito del continuum che crediamo di intravedere nella Storia. L’idea di nuovo – in altre parole – mi sembra strettamente legata al fulmineo, paradossale movimento del miracolo. Il miracolo è il novum, dunque, ma anche quello che nel campo altrimenti chiuso della fotografia Roland Barthes definisce, ne La camera chiara, il punctum: quell’estasi dell’immagine che trafigge lo spettatore, quella sorta di ferita a partire dalla quale il tempo congelato nella foto riprende diversamente a fluire.

 

 

 

la goccia

 

Nella goccia il mare del tempo si immobilizza. La goccia è una monade isolata in una costellazione(Benjamin). L’urto della cristallizzazione la trasforma in prisma.

 

Robert Bresson, (il regista di Lancillotto e Ginevra e di Un condannato a morte è fuggito) diceva che esistono film brevi che durano moltissimo e film lunghi che durano molto poco.  E’ quel che accade al monaco dell’aneddoto medievale ripreso da Newman che Borges mette in exergo al suo racconto: il canto di un uccello nella foresta lo trattiene per 300 anni (l’inglese dice deteined, trattenuto, ma anche detenuto, la bellezza del canto lo imprigiona) ma per la sua coscienza è passata soltanto un’ora ( esistono diverse versioni di questa storiella “ben conosciuta”). L’estasi arresta la mortalità, sospende e rallenta il flusso del tempo. Ma nella favoletta del monaco, la morte è semplicemente dimenticata, il tempo, come dice Char, è “perso di vista”…

 

E’ solo togliendo la morte, sospendendo la sentenza di morte che il paradosso di Hladik è possibile, perché, qualunque cosa vogliamo pensare del tempo, la morte è all’origine della nostra percezione temporale: gli immortali non sentono il passare del tempo come lo sentiamo noi, il nostro corpo è il più intimo e infallibile degli orologi. Nascendo entriamo nel tempo, ma è la morte che ci attrae dal fondo della nostra storia: vincerla o ritardarla, nell’apertura di un altro tempo, di un nuovo tempo, fermare il tempo, come Giosué che si rivolge al sole o Faust che fa appello all’attimo, nell’eros o nella bellezza, nell’unione mistica con un principio immortale o nell’azione sulla natura, è l’anelito che nutre le grandi trame dell’arte e della letteratura occidentali che più di altre tradizioni hanno pensato la morte. Il gesto originario della raffigurazione è strettamente legato alla morte, al desiderio di vanificare il  suo potere o di ritualizzare il suo evento da parte di uomini che la propria temporalità non l’hanno conosciuta come eredità culturale, ma l’hanno scoperta, come sui muri di Lascaux, nello stupore dell’angoscia: cerca sicuramente di arrestare il tempo il gesto della fanciulla di Corinto, che il racconto di Plinio il Vecchio, pone all’origine della figurazione plastica, la figlia del vasaio che con la creta utilizzata dal padre riempie l’ombra proiettata su un muro dal corpo dell’amato. E’ il nostro problema da sempre, quello di salvare le cose, gli enti, le presenze, trattenendoli al di qua o portandoli oltre l’orlo terrifico della loro continua sparizione nel flusso del tempo. Come scrive un teorico dell’immagine, Diego Mormorio, in un libro che si intitola appunto Catturare il tempo: “Dall’antica Grecia in poi, la nostra cultura vive nell’angoscia di vedere sparire le cose: dai più intimi affetti a tutto il resto. Instancabile, come il peggiore dei mostri, il tempo ci appare come il fagocitatore di tutto. Esso travolge ogni bellezza, insieme a tutte le bruttezze del mondo…in Occidente, pensiamo che tutte le cose compaiono e scompaiano e che di esse non rimane niente oltre il ricordo.” La contemplazione di ciò che resta al di qua e di ciò che va al di là  di questo continuo divoramento di manifestazioni e di fenomeni, di ciò che è fermo nel movimento, unico nel molteplice, è un pensiero caro soprattutto alle filosofie orientali, anche se, a quanto sembra, la stessa metafisica indiana conoscerebbe la passione per la fulminea rottura dell’istante (“Il Brahaman intemporale ha per simbolo, nella natura, il lampo, e, nell’anima, l’immagine istantanea.”[16]) L’occidente teorizza lo scintillio dell’attimo come possibilità di guardare l’assoluto dal punto di vista del relativo, ripensando una rivelazione orientale che, invece di precedere e fondare ogni produzione di storia, si infila come una scheggia contraddittoria nella storia stessa – la buona novella cristiana, contemporanea dell’ordine imperiale - come avviene con il kerigma dell’incarnazione. Prima ancora di inventarli, c’è un pensiero che prefigura la fotografia e il cinema: queste due macchine di resurrezione visuale dei corpi, con le quali, sostiene ancora Mormorio, “l’individuo moderno ha sperimentato la possibilità di creare un frammento di eternità senza dover abbandonare la convinzione che niente è eterno”, producendo una pacificazione tra coscienza e desiderio – coscienza della morte e del finito, desiderio dell’immortalità e dell’infinito – una pacificazione che si fonda sulla fragilità di un pezzo di celluloide, di carta, di disco magnetico. Non è dunque un caso che uno dei principali reperti, delle principali reliquie della cristianità, strettamente legata all’idea di un’immagine acheropita – “non toccata da mano umana”- sia stata oggetto di una vera e propria rivelazione fotografica, cioè che la Sindone di Torino sia potuta apparire, agli occhi attoniti dell’avvocato e fotografo Secondo Pia, come quello che per più di un millennio nessuno aveva sospettato che fosse: un negativo che affiorava dal bagno dello sviluppo mostrando il volto che fino a quel momento vi si era nascosto. Anche se in realtà… fissando gli occhi in questo miracolo contemporaneo, non si vede “quasi niente”, persino la sua materia originaria – una grande pezza di lino ad armatura saia coperta di macchie – è nascosta in un reliquario chiuso e cintato da una griglia e incassato in un altare monumentale. Più che altro, racconta Georges Didi- Huberman, “si desidera vedere”, il visibile è conquistato solo poco a poco, attraverso l’invisibile...

 

“Va ricordato, però, quanto segue: l’incipit storico del movimento tramite cui il sudario di Torino diviene visibile – e più precisamente figurativo – appartiene alla storia della fotografia, all’istante, al colpo d’occhio inaugurale in cui il cavaliere Secondo Pia mise nel bagno rivelatore il suo ultimo tentativo di realizzare un’appropriata prova fotografica della Sacra Sindone. I precedenti tentativi erano stati sfortunati: sottoesposti. Ecco cosa accadde: al momento della rivelazione del negativo, nella camera oscura, un viso si mise a guardare Pia dal fondo dell’acqua. Un viso che egli non aveva mai visto sul panno di lino. Un viso insperato, come gli capitò di dire. Per poco non svenne. Questo accadeva la notte tra il 28 e il 29 maggio 1898.”[17]

 

 

Non è forse la fotografia che si è incaricata di riportare in vita i morti nell’eterno presente dell’immagine, rielaborando attraverso un culto scientifico i nostri culti più arcaici? Perché stupirsi allora se ogni salvezza e ogni superstizione, se il massimo della salvezza e il massimo della superstizione, convergono nell’attuale idolatria delle immagini? Sotto la scorza di quella che Guy Debord definiva “società dello spettacolo” continua ad agitarsi il tentativo di eternizzare la turbolenza dell’effimero, rendendo omaggio alla morte e insieme all’immortalità, alla negazione del tempo e all’esaltazione del contemporaneo: basta soffermarsi per qualche minuto sugli sguardi standardizzati delle serigrafie di Andy Warhol, nel loro tentativo di formare un’iconostasi dello star system:  cos’è che in questi sorrisi gelati da una chimica piatta ci euforizza e nel contempo ci agghiaccia? E’ evidente: la loro reificazione, il loro divenire oggetti – e oggetti di culto – il fatto che i loro sguardi siano i terminali di una generale devitalizzazione dello sguardo,  che essi ci appaiano immortali perché già morti, ombre di quell’Ade contemporaneo che – il vecchio Roth non aveva sbagliato – è lo star-system, una costellazione immanente, senza trascendenza, che è ormai diventata la nostra stessa vita….  

 

Se da un evento tolgo il vento del tempo, strappandolo al flusso dell’accadere, congelandone la parabola, se lo inchiodo nel punto dell’attimo – se gli oppongo quello sguardo di medusa che tanto affascina Jakob Lenz nel racconto di Büchner (un personaggio pre-fotografico che evoca il desiderio della fotografia, come del resto, nello stesso racconto, quello della resurrezione) ciò che resta è soltanto un’immagine, come quella, immobile e cristallizzata, in cui il condannato di Borges si ritrova a vagare con lo sguardo. Ogni immagine viene dal travaglio del tempo e sospendendone gli effetti ne eternizza i segni - pensate ai quadri di Mantegna, a quella decrepitudine che sembra corrodere ogni pietra e ogni volto, anche i più giovani, o all’opposto a quelli di Giovanni Bellini, alle sue Madonne bambine, sempre rappresentate nel fiore degli anni, anche quando il pittore era ormai vecchio.

 

La donna che urla piangendo l’uccisione del figlio in una fotografia di Hocine scattata in un villaggio algerino dopo un attacco degli integralisti islamici, non la smetterà mai di urlare, di percuotere il tempo con la sua gola oscura che a Georges Didi-Huberman ricorda il grido del Laocoonte, che la sensibilità neoclassica considerava osceno.

 

Hladik è dentro o fuori il tempo mentre mentalmente riscrive I nemici? Lo scrittore praghese è entrato in un altro tempo, qualitativamente diverso da quello che ora gli scorre attorno: siamo in un’estasi, cioè in una rottura qualitativa dell’ordine del tempo che lo approfondisce e lo rimodula secondo una durata diversa da quella di un “continuum omogeneo e vuoto”. La durata è quella necessaria al compimento memoriale dell’opera, dire che gli è stato concesso un anno è puramente convenzionale – così, certo, avrebbe stabilito Dio nel sogno - ma nella condizione in cui si trova, il condannato a morte non è in grado di contare i giorni, poiché tutto l’universo fisico si è fermato in un solo punto. Non c’è alba e non c’è tramonto, c’è un solo lungo momento riplasmato dal compimento di un’azione meramente mentale, che per altro ha un andamento chiaramente ritmico e musicale, dal momento che, scrive Borges, è “ordita nel tempo” e scandita dal metro del verso in cui è scritto il dramma. Solo alla fine scopriamo che il suono non ha completamente abbandonato la scena: questa parola che non ha più spazio, infatti, risuona nel canto interiore che la intona. La lingua scava la profondità del tempo. Poi, all’ora fissata, il tempo torna su se stesso (lo scrittore trova il suo ultimo aggettivo, conclude il suo dramma, la goccia riprende a scivolare sulla sua guancia, l’uomo grida il principio di un grido, muove la testa, il plotone fa fuoco e lo fulmina con una quadruplice scarica).

 

Hladik è uscito ed entrato nel tempo, la sua redenzione e la sua morte hanno coinciso nello stesso momento, ma secondo due diverse durate: una oggettiva, l’altra segreta. Lo spazio le unisce – esse condividono fino all’ultimo la stessa immagine. Il tempo le divide. In un urto messianico, l’istante le ricongiunge.

 

 

 

 

 

 

Hladik alla fine è rimasto solo, come l’uomo che in Boulevard du Temple si faceva lucidare le scarpe attendendo che la sua figura si fissasse sulla lastra d’argento di Daguerre per diventare, a quanto si dice, la prima figura umana  mai comparsa in una fotografia: nel frattempo, nel lungo tempo di esposizione che richiedevano gli apparecchi dell’epoca, la folla del boulevard “stracolmo di gente e di carrozze”[18] si andava cancellando sulla lastra, ma non sotto il suo sguardo da uomo che, dritto nel fluire del tempo, contempla con la coda dell’occhio la sua eterna immobilità, vede quel che noi non vediamo, se non  attraverso di lui: un vento di ectoplasmi che lo investe e lo attraversa. Dicono che questa immagine non sia che una copia di quella originale di Daguerre. E che nel dagherrotipo originale non ci sia più nulla. Anche questa estrema e resistente figura, alla fine, è stata riassorbita dall’invisibile. To complete and make up the catastrophe of this great piece.

 

 

Appendice. L’altro che danza per me[19]

 

C’è una famosa fotografia di Henri Cartier-Bresson scattata a Parigi negli anni trenta: mostra un uomo che per superare una grande pozzanghera spicca un salto aprendo le gambe e restando sospeso a qualche centimetro dall’acqua. E’ un uomo pesante, goffo, un borghese con il cappello: è abbastanza evidente che non riuscirà a superare la pozzanghera, il suo slancio è troppo debole, ma per il momento si libra nell’aria. E questo momento per Cartier-Bresson è l’istante decisivo della fotografia, forse anche, a pensarci bene, un istante indecidibile, quello in cui si sfida qualcosa che non può essere vinto: la forza di gravità. Come in molte fotografie di questo fotografo,  le simmetrie della composizione, quasi irritanti nella loro perfezione, fanno pensare che l’immagine, tagliata in due dallo specchio d’acqua che riflette le sagome del saltatore e quella del passante fuori dai  cancelli, potrebbe essere stata messa in scena. E poi c’è quell’altro dettaglio che, sempre che lo si colga, ha dell’incredibile: dalla parte opposta all’uomo che salta c’è il manifesto strappato di un circo – il circo Crailowski – con una danzatrice stilizzata che vola nell’aria con un perfetto grand jeté, vola sforbiciando nel senso opposto a quello del borghese col cappello, fa il suo stesso salto, ma lo fa bene, lo fa così bene che non è reale, ma dipinta.

 

 

 

 

 

 

Eduardo De Filippo diceva che gli attori recitano bene sulla scena quello che noi facciamo male nella vita. Considero il palcoscenico una camera di compensazione in cui la vita, costantemente sopraffatta dalla propria gravità – da quella gravità necessaria e tendente all’abisso che Simone Weil definisce pésanteur e che è un’affezione dell’anima, prima che del corpo – viene finalmente restituita al sogno da cui è sicuramente uscita. Non mi sono mai reso conto che camminare fosse un problema finché non mi sono trovato davanti a tre situazioni, a tre scene che hanno messo seriamente in discussione la scontatezza di questo gesto: la prima volta è accaduto con un film di Robert Bresson che si chiama Il diavolo probabilmente. C’è una scena di quel film che si svolge sotto un ponte della Senna dove un gruppo di ragazzi sfila davanti a un uomo più anziano che seduto controlla la suola delle loro scarpe e, dopo averla osservata, dopo averla letta, dice a ognuno: tu sai camminare, tu non sai camminare. La mia generazione, per lo più, non sapeva camminare. La mia generazione aveva dei problemi con lo spazio, pur essendo stata una delle ultime ad  avere un sentimento dello spazio. La seconda volta è accaduto al Teatro dell’Opera di Amburgo con l’ingresso in scena di un ballerino cecoslovacco, Ivan Liska, che interpretava il ruolo di Onegin nella coreografia di John Cranko: qualcosa si imprimeva e subitamente si staccava dal suolo, ciascuno di quei passi  esisteva (esisteva, diciamo, come le mele nei quadri di Cézanne, con lo stesso rilievo, la stessa ineluttabilità, la stessa consistenza sospesa tra diversi stati del reale) ed esisteva a tal punto dall’indurmi a scoprire non solo la completa inadeguatezza del mio corpo rispetto alla terra – questo punto, francamente, non mi interessava granché, avevo ormai stabilito un patto di desistenza con il mio corpo – ma il fatto che probabilmente in altri tempi l’umanità aveva camminato con quella stessa consapevolezza simbolica dei propri passi. A questo esserci, chiamiamolo così, dei danzatori sul palcoscenico rispondeva un di più di presenza (la parola che all’epoca mi veniva in mente era carisma) e un di meno di pesantezza: non la stilizzazione e la smaterializzazione di un segno, la sottigliezza di un corpo figurale o la duttilità di una super-marionetta, ma una diversa cadenza, un altro equilibrio; non una mancanza di peso del corpo ma un peso senza pesantezza, un peso redento – redento non vuol dire cancellato, ma salvato in quanto tale, portato all’estremo delle proprie potenzialità creaturali, redento non vuol dire efficace, prestante o funzionale, bensì puro. Come il corpo glorioso vagheggiato da alcuni padri della Chiesa che non perde gli organi, ma piuttosto le funzioni, e agisce in un’economia gratuita e puramente ostensiva, un corpo non immobile, ma supremamente agile, per il quale, Giorgio Agamben, non trova similitudine migliore della danza: “Come danzatori, che si spostano nello spazio senza scopo e senza necessità, i beati si muovono nei cieli solo per esibire la propria agilità.” Ora, solo un corpo umano – intendo un corpo senziente – può agire puramente. Come dice il filosofo Byung-Chul Han “Solo l’uomo sa danzare”. E se non lo sa fare, si rende conto, appena lo vede fare, che ha sognato di farlo.  Qualcuno sul palcoscenico della Staatsoper  di Amburgo faceva qualcosa che io non sapevo fare ma che non avevo mai smesso di sognare e che riconoscevo come qualcosa insieme di salvato e di perduto: potevo non danzare perché qualcun altro danzava, e per svariate volte quel piacere immenso di sapermi diverso sulla scena non mi sarebbe stato negato, neanche nelle ripetizioni – per dodici volte, sera dopo sera, ho visto Onegin avanzare verso Lenskij con la pistola allineata alla gamba, con quella fatale eleganza che non appartiene mai del tutto alla vita, e ogni volta sono tornato a sperare che non sparasse, ma che un piccolo gesto innescasse una grande variazione, modificando completamente il senso del dramma, pur sapendo che invece avrebbe finito per sparare, come imponevano il copione, la coreografia di Cranko e il poema di Puškin. Niente di nuovo, intendiamoci, questa fibrillazione di entusiasmo, questo aumento di temperatura dell’immaginario davanti alla danza – e non ancora dentro di essa – è lo stesso descritto da Paul Valéry nel suo famoso dialogo, e anche lì, come dice Socrate, si tratta di una scoperta, di divina sorpresa: “Io stesso mi sento invaso da forze straordinarie o sento che esse escono da me che non sapevo di contenere queste virtù. In un mondo sonoro, che risuona e rimbalza, questa festa intensa del corpo davanti alle nostre anime offre luce e gioia…Tutto è più solenne e più leggero, tutto è più vivo, più forte, tutto è possibile in un altro modo[20], tutto può ricominciare indefinitamente…” C’è una bella alternanza tra la precisione dei verbi e l’ebrezza sostenuta di un’aggettivazione tardo-romantica: Valéry ha descritto alla perfezione il risveglio del vecchio porco estetizzante che cova in ogni spettatore intellettualistico. E tuttavia questa festa intensa del corpo resta davanti alle nostre anime, è un oggetto di contemplazione (solo in un’altra vita, come è noto, Socrate farà della musica), Valéry non arretra o non avanza verso la “festa intensa” del corpo come aveva suggerito Rousseau nella Lettera sugli spettacoli, dove il ritorno alla festa popolare (e la festa popolare è la danza) è un antidoto alla separazione dello spettacolo teatrale, colpevole di isolare gli individui gli uni dagli altri, sovrapponendo alle autentiche passioni che provano delle passioni imitate, o come più tardi proporrà, con un drastico corto-circuito della rappresentazione, Antonin Artaud. Niente happening, niente party, niente partouze, niente balli di gruppo e niente karaoke. Saggiamente, tristemente se volete, il vecchio porco non vuole abolire quello che una pletora di interpreti, più o meno impegolati nella danza - Baudrillard, Byung-Chul Han, lo stesso Grotowski - cercheranno di ristabilire in seguito come pathos della distanza. E’ in questa distanza, se non in questa alterità della danza dove “tutto è possibile ma in un altro modo”, in questa alterità del desiderio che il trentenne frequentatore della sala del teatro dell’Opera di Amburgo, innamorato di una delle danzatrici che interpretava un’amica di Olga nell’Onegin di Cranko (ci vuole almeno un po’ d’amore per vedere uno spettacolo dodici volte) convinto fino a quel momento che il teatro fosse letteratura realizzata, scopriva la diversità del palcoscenico che il teatro di prosa non  gli aveva lasciato intravedere, probabilmente perché “la parola” gli era ancora troppo familiare. Ma se la danza era l’anima stessa toccata da una grazia immanente e possibile – più forte e viva di qualunque sogno – era anche tutto questo in quanto altro. La danza era l’altro che danzava per me e, in qualche modo, al mio posto.

La terza circostanza, la terza scena, viene ancora dopo, e ha sempre a che vedere con il camminare. Ero già padre di due figlie, giornalista professionista, quando sono stato inviato in Mali per scrivere un reportage. Un mattino a Bamako mi sono svegliato all’alba e ho scoperto di non avere più sigarette. Allora mi sono precipitato fuori dall’albergo nella speranza che in una vita così caotica e informale come quella di questa città, che è solo uno sterminato paesaggio umano, dove gli uomini danno sempre l’impressione di essere più alti delle loro casupole di lamiera,  non sarebbe stato impossibile trovare un venditore ambulante di sigarette. E ho avuto ragione perché l’ho trovato immediatamente, proprio all’angolo dell’hotel, un ragazzino di nemmeno dieci anni con il suo espositore (occhiali da sole, dolciumi, cartoni d’acqua e sigarette americane reinventate in Africa centrale). Ma mentre  compravo le sigarette, mi sono reso conto di una cosa piuttosto singolare: fuori dalla cinta muraria del mio albergo scorreva un lungo corteo di automobili e di persone, le automobili avanzavano in fila rombando e strombazzando – non sentivo così tanto rumore dagli anni settanta – e le persone camminavano sull’asfalto accanto e in mezzo ad esse, ma seguendo una loro andatura completamente autonoma: centinaia di donne, uomini e bambini, ma soprattutto donne, cariche di fardelli di ogni tipo – li portavano sulle spalle, e spesso si trattava dei loro figli, o sulla testa e questo le rendeva simili a quelle statue greche che si chiamano Korai -  camminavano nella stessa direzione, verso il centro della città, e allo stesso passo, seguendo lo stesso ritmo e una velocità costante, come fosse esistita una forza che accordava i loro passi. Nessuno sembrava affrettarsi o rallentare, nessuno correva o indugiava, molti erano a piedi nudi: li vedevo avanzare su un invisibile tapis roulant, lievi e senza fatica (la fatica, una tremenda fatica di vivere l’avevano inghiottita e sciolta nelle loro membra di popolo giovane pronto a morire, come dicono le statistiche, verso i 47 anni), si alzavano e si riabbassavano come se assecondassero il movimento della terra. Era questa fiducia a sorprendermi, questo abbandono musicale del corpo. Non avevo mai visto nessuno camminare in quel modo: nessun corteo, nessun esercito, nessun quarto stato, nessun corpo di ballo. Gli scoppi e il fragore di un traffico infernale li incalzavano, loro si alzavano e ricadevano sulla terra leggeri e silenziosi, esalando dai corpi una specie di respiro d’organo. Ho provato una fitta acuta di nostalgia che da allora  non ho più cercato di spiegarmi. Forse è solo di nostalgia che posso parlare rispetto alla danza.. “Si dovrebbe camminare di più sulla terra in questo modo!” dice il protagonista dei Bei giorni di Aranjuez di Peter Handke. Si dovrebbe danzare di più nella vita.

 

 

 

 

Note:

 

 

[1] Note per il seminario Tempo/10 variazioni su tema (primo seminario, 31 ottobre-1 novembre 2015, Castiglioncello)

 

[2] Da Finzioni, trad.it di Franco Lucentini, Einaudi, Torino 1995

 

[3] J.L. Borges, “Il miracolo segreto” in Finzioni, cit., p. 140.

 

[4] Ibidem, p. 141

 

[5] W.G. Sebald, Gli anelli di Saturno. Un pellegrinaggio in Inghilterra. Trad.it. di Ada Vigliani, Adelphi, Milano 2010, p.35

 

[6] Giorgio Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi in quattro scene. Nottetempo, Roma 2015, p. 17

 

[7] Ananda K. Coomaraswamy, Tempo ed eternità, trad. it. di Robert Rajko, Edizioni Mediterranee, Roma 2013, p 29

 

[8] Ibidem

 

[9] Cosa resta a quel punto del sacrificio di Isacco? Resta il gesto, una forma simbolica e rappresentativa.

 

[10] Roland Barthes, cit., p.17

 

[11] Forse devo cercare di spiegare l’uso di questo aggettivo – negativo – applicato alla contemplazione. Esso si rifà direttamente al carattere inoperoso della pratica contemplativa con una sottolineatura rispetto a quel mondo totalmente realizzato nella positività, a quella “realtà integrale” di cui Jean Baudrillard ha parlato nell’ultima fase della sua opera, preconizzando in Il patto di lucidità o l’intelligenza del male (Raffaello Cortina, 2006) la “morte dello spettatore” e la fine dell’illusione estetica. Per contemplare bisogna rifiutare l’immersione nello spettacolo, tornando a esercitare quello che Baudrillard definisce il pathos della distanza, concetto poi ripreso da Byung Chul – Han, segnatamente in Sciame (Nottetempo editore, Roma, 2015). Ma ancor prima anticipato da Jerzy Grotowski nelle sue considerazioni sulla “vocazione dello spettatore” che, proprio alla fine degli anni sessanta, nel momento apicale di pratiche immersive come l’happening, recuperava la posizione appartata dello spettatore-testimone rispetto all’evento teatrale. In Teatro e rituale del 1968 (ora nel secondo volume dell’opera completa del regista polacco che il grande lavoro di Carla Pollastrelli sta restituendo al lettore italiano, Jerzy Grotowski, Testi 1954-1998. 2. Il teatro povero, La casa Usher, Lucca 2015, pagg. 123-140) il termine latino usato per definire lo spettatore-testimone, respicio, rispetto, è lo stesso utilizzato da Byung Chul-Han in Sciame. D’altro canto, non si può sfuggire alle considerazioni sull’inoperosità di Giorgio Agamben che, commentando un opuscolo del pittore Cazimir Malevic in “Che cos’è l’atto di creazione?” (G. Agamben, Il fuoco e il racconto, Nottetempo, Roma, 2014, p. 57) scrive: “Come tutti i tentativi di pensare l’inoperosità, anche questo testo, come il suo precedente diretto, che è L’elogio della pigrizia di Lafargue, in quanto definisce l’inoperosità soltanto a contrario rispetto al lavoro, resta imprigionato in una determinazione negativa del proprio oggetto. Mentre per gli antichi era il lavoro – il negotium – a esser  definito in negativo rispetto alla vita contemplativa – l’otium – i moderni sembrano incapaci di concepire la contemplazione, l’inoperosità e la festa altrimenti che come riposo o negazione del lavoro.” Per poi concludere: “Contemplazione e inoperosità sono, in questo senso, gli operatori metafisici dell’antropogenesi, che, liberando il vivente uomo da ogni destino biologico o sociale e da ogni compito predeterminato, lo rendono disponibile per quella particolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare ‘politica’ e ‘arte’” (p. 59) 

 

[12] I seminari organizzati da Claudio Morganti a Castiglioncello si svolgono in un castello, il Castello Pasquini.

 

[13] Nell’Amara sorte di Claudio Morganti, (2015) l’attore-regista riprende il suo spettacolo L’amara sorte del servo Gigi che nel 1995 aveva portato in scena L’ultimo nastro di Krapp cambiando tutte le parole del testo beckettiano e mantenendone soltanto gli elementi scenici (l’uomo e il registratore) e il ritmo drammaturgico, cioè la scansione del tempo. Le parole registrate allora si riferivano al passato di allora. Riprese oggi si riferiscono al passato di un passato. Morganti, nel frattempo, ha sostituito la mimica del proprio volto alla leggera maschera di argilla che venti anni fa si applicava al viso per invecchiarlo. L’anacronismo del teatro, avanzando, diviene sempre più incarnato. Come il “tempo inverso” registrato da Florenskij nei sogni, corre verso il presente. 

 

[14] Pavel A. Florenskij, Stupore e dialettica, a cura di Natalino Valentini, trad-it di Claudia Zonghetti, Quodlibet, Ancona, 2011, p. 43

 

[15]J. Roth,  L’Anticristo, trad.it di Cristina Guarnieri, Editori Riuniti, Roma 2010, p. 27. Ma si vedano  anche, dello stesso Roth, gli splendidi scritti sul cinema (1919-1935) in L’avventuriera di Montecarlo, Adelphi, Milano 2015.

 

[16] Deussen nel suo commento alle Upanishad citato da Ananda K. Coomaraswamy in Tempo ed eternità, Edizioni Mediterranee, Roma 2013, pagg. 20-21

 

[17] Georges Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, trad. it. Marta Grazioli, Bruno Mondadori, Milano, 2008, p. 170

 

[18] Giorgio Agamben in Il giorno del Giudizio, Nottetempo, Roma 2004

 

[19] Discorso pronunciato su invito del coreografo Michele Di Stefano a Courtesy, Angelo Mai, 17 dicembre 2015.

 

[20] Il corsivo è mio

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