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Claudio Morganti

Tempo discontinuo

 

1 territorio

 

Vorrei partire da un elemento musicale e cioè dalla cosiddetta “nota fantasma”.

Non è facile definire una nota fantasma e gli stessi musicisti a volte non concordano.

Vediamo: c'è chi dice che è una nota stoppata, cioè una sorta di nota muta, c’è chi invece preferisce dire che si tratta di una nota appena udibile. Ultimamente un amico musicista mi ha detto che la nota fantasma andrebbe piuttosto pensata che non eseguita.

Ma “stoppata”, “appena udibile”, “pensata” sono già tre modalità completamente differenti.

Il maestro Giovanni Tamborrino mi dice che la nota fantasma è una nota morta (o non nata), è da considerarsi più che altro come suono indeterminato.

Dunque è una questione di vibrazioni. La nota fantasma non vibra, o vibra molto poco.

In ogni caso, penso che si possa dire, per ora, che all'interno di un'esecuzione musicale, la nota fantasma (o ghost note) ha più che altro una funzione ritmica, infatti si tratta di una nota che smarrisce, modifica, se non addirittura “nasconde” le sue componenti sonore (altezza, intensità e timbro): risulta dunque essere più un rumore che una nota vera e propria.

E’ una sorta di “coloritura ritmica”, una specie di silenziosa acciaccatura, un abbellimento molto discreto.

(E’ quasi come se fosse un suono che viene da un altro strumento e che, in sottofondo, evidenzia un andamento ritmico)

 

 

 

 

 

Una nota fantasma è dunque una nota che si sente poco, o meglio, una nota che è anche possibile non sentire.

E' un fenomeno che abita quel territorio che sta tra l'udibile e il non udibile.

Per i batteristi, per esempio, (per i percussionisti in generale) più che di nota fantasma, si può parlare di “colpo fantasma”.

Nelle partiture per batteria, (nel sistema classico di notazione), i colpi fantasma vengono scritti in partitura e messi tra parentesi.

 

Si tratta dunque di qualcosa che sta “tra parentesi”, una sospensione, una rapida irruzione di un silenzio che vuol farsi udire, l’emblema di una sparizione, una piccola divagazione che potrebbe anche essere considerata superflua, inutile.

 

 

 

 

 

L’elemento della batteria maggiormente interessato dai colpi fantasma è il rullante. La bacchetta dovrebbe sfiorare la pelle, ma dal momento che anche il più tecnico dei batteristi non arriva ad essere un automa (con buona pace di G.Craig e della sua supermarionetta!), nel pieno, nella foga di un’esecuzione, a volte la punta della bacchetta sfiora la pelle, a volte la tocca sensibilmente e a volte la manca (si muove cioè, semplicemente nell'aria, senza produrre suono alcuno).

 

 

 

 

 

Vediamo allora il conflitto tra la bacchetta e la pelle.

Proviamo ad immaginare una macchina, un braccio meccanico munito di bacchetta, che batta una lunga serie di colpi sulla pelle del rullante e progressivamente li alleggerisca riducendo la sua corsa con scansione millimetrica: finchè la bacchetta toccherà, vi sarà una reazione della pelle e del rullante stesso, che andrà via via diminuendo di intensità con il diminuire della corsa del braccio meccanico. Nella zona di passaggio tra suono e non suono, tra movimento sonoro e movimento muto, la pelle del rullante restituirà comunque una reazione, anche quando la bacchetta inizia a sfiorare senza dichiaratamente toccare.

E quando, continuando a muoversi sarà ormai lontana dalla pelle, quel movimento sarà comunque portatore di un eco, grazie a quell’immagine potremo forse pensare di sentire qualcosa, ma non ci sarà più “suono”.

 

Quella zona è zona problematica.

 

Possiamo allora immaginare due territori distinti (l’udibile e il non udibile), due territori molto prossimi, ma separati da questa zona, la zona dell’eco o dell’illusione del suono. Due territori separati da una specie di terra di nessuno, una linea di confine in costante movimento, tanto da non poter essere definita chiaramente. Potrei dirla una “linea vuota” se fossi un orientale (e più avanti proverò a tornare su questo punto), ma siccome provengo da differente cultura, preferisco chiamarla “gassosa”.

 

Si tratta di un limite, di un confine. E’ la zona dell’indeterminabile.

Del suono e del movimento indeterminabile.

Come la linea di onda e risacca che non si può fermare.

 

Vorrei ora citare Buchner e il suo Woyzeck, quando, poco prima del tragico epilogo, parla di "quella lineetta tra il si e il no".

Dice Woyzeck:

“Signor capitano, è il si che dipende dal no o il no che dipende dal si? Ci devo pensare.”

Io non riesco a non trasporre il si e il no di Woyzeck in una dimensione metafisica ed intendere quel “si o no” come “essere” o “non essere”, cioè esser vivi o esser morti. Allora la lineetta tra si e no è anche quel territorio che separa la vita dalla morte, e dunque ciò che separa quel che pensiamo di conoscere da quel che certamente non conosciamo.

 

Dunque c’è il si e c'è il no, e c'è una lineetta tra si e no, un maledetto segno grafico, qualcosa che può far smarrire la ragione.

E quella lineetta è un altro possibile nome, un altro emblema di quel territorio gassoso (o liquido e spaccato) di cui vorrei riuscire a parlare.

 

 

 

 

 

L'ARTISTA E' UN ANIMALE?  (animale è vivere in continuo agguato)

 

Riprendo lo schema abbozzato da Deleuze perché lo trovo sufficientemente calzante rispetto all’artista. Mi riferisco al rapporto tra territorio e quel movimento di uscita da esso.

Prima però è necessario precisare cosa intendo per territorio dell'artista e per costruzione del territorio.

 

Il territorio di un artista si costruisce attraverso pratica e studio e, mia opinione personale, sarà tanto più coeso e mobile quanto più pratica e studio saranno coincidenti.

Diciamo dunque che il territorio di un artista è il suo sapere, le sue competenze.

Dentro ad una ideale purezza di sapere e competenza, ci sono una serie di elementi, di cascami, orpelli, dettagli, avanzi, scorie a volte vitali e a volte mortali, che contribuiscono al movimento o all'immobilità.

Mi soffermerò soltanto su di uno di essi, uno di quelli che contribuiscono all'immobilità, un elemento mortale.

Mi riferisco all'insopprimibile tendenza alla esatta ripetizione, alla replica;

alla indistruttibile tentazione del nostro corpo e della nostra mente di costruire strutture solide ed (illusoriamente) eterne, fatte di intonazioni, pause, sguardi e movimenti ripetibili sempre e sempre uguali a se stessi.

Durante la costruzione del territorio di un artista, si accumulano, purtroppo, troppe certezze.

Li chiamiamo strumenti, che impariamo ad usare con abilità. Ordini di pensiero che non subiscono scalfitture. A volte gli attori esibiscono unicamente la loro capacità di adoperare gli strumenti che possiedono, ma si da il caso che un artista non è un impiegato ed un virtuoso non è necessariamente un artista.

 

Compito di un attore non è mostrare la sua bravura ma portare lo spettatore in un altro tempo e in un altro spazio. (Y. Oida)

 

Dunque diciamo che c’è questo territorio che un attore costruisce nel tempo e che presenta confini indeterminati.

E’ un limite, il cosiddetto “proprio limite”. Dobbiamo provare a togliere all’idea di proprio limite qualsiasi accezione negativa. E’una stortura tipicamente occidentale parlare dei limiti e di considerarli negativamente.

Tanto che si parla sempre di “superare i limiti”.

(cuore oltre l’ostacolo)

Ho sempre pensato che la storia del “superare i limiti” fosse una stupidaggine.                     Se superi un limite, questo rimane lì dov'è. Sei soltanto riuscito, per una volta, a saltare un po' più in là, ma quel limite non s'è mosso.

Io direi che se intendiamo il limite come un confine, quel che bisogna fare è cercare di spingerlo in avanti”.

 

Ancora Deleuze:   

 

“Scrivere è lanciarsi in una questione universale. Scrivere significa necessariamente spingere il linguaggio e la sintassi, perché il linguaggio è la sintassi fino ad un certo limite.

In un certo senso lo scrittore è colui che spinge il linguaggio al limite, limite che separa il linguaggio dal canto, dall'animalità, dal grido”.

 

Quindi spingere il linguaggio equivale a spingerne un limite.

Ma è proprio quel movimento di fuoriuscita, di pericolosa avventura, di agguato, a rendere l'azione più porosa, terrena e ruvida. Questo  movimento denso verso il fuori (in territorio inesplorato e dunque pericoloso) tende a trascinare con se il limite, e questo fa si che il proprio territorio si espanda.

 

Io sento che il mio compito, in quanto cercatore di teatro, non è quello di occuparmi  dei due territori, o meglio, me ne devo occupare in fase di progettazione e preparazione del lavoro, o (come si usa dire) di allestimento, devo cioè provare a considerare ciò che so e ad immaginare ciò che non so, ma nell'atto, cioè nel mio fare di fronte al pubblico, vivo e presente, sento che per poter provare anch’io ad essere un minimo vivo e presente, devo frequentare proprio quella zona di confine, quella linea che separa il conosciuto dal non conosciuto.

E mi riferisco al percorso fatto di azioni e parole che si è stabilito. Ciò che si è stabilito è il conosciuto, ciò che non si è stabilito è il non conosciuto.

 

Provo a fare un esempio.

 

Voglio provare una sequenza progressiva di sempre più dilatate pause. Quanto posso spingermi in questo gioco senza perdere swing? Voglio provare ad inoltrarmi nel territorio del non dire. Una sortita, un’incursione nell’attimo di un tempo sospeso. Forse potrò scoprire l’esistenza e il senso di un silenzio che non avevo programmato. Ma se questo dovesse accadere, non potrò replicarlo, non lo dovrò fissare, perché non posso offrire a chi è vivo di fronte a me un simulacro, il cadavere di un silenzio che è stato, di un silenzio che fu vivo ma che oggi non lo è più.

Posso provare a rifare quel gioco, (il gioco della dilatazione delle pause per scoprire un silenzio) ma dovrò ascoltare quel momento e regolarmi in maniera nuova e sicuramente quello stesso silenzio non verrà. E più io mi ostinerò a volerlo replicare e meno verrà. Forse ne verrà uno di diversa qualità o verrà in un altro momento o non verrà affatto.

Certo è un casino, ma nessuno mai, credo, ha detto che recitare sia cosa facile.

E ancora.

Quel che a me interessa e quel che penso sia il nocciolo caldo del mio lavoro è quel movimento che viene provocato dall’attrito tra non essere ed essere. Tra ciò che è morto e ciò che si cerca di rivitalizzare.

Lo spettacolo, cioè la successione di eventi, (provati e replicabili) che un attore attraversa, non è altro che un lungo cadavere che deve essere resuscitato.

Lo si attraversa grazie a tutto ciò che di quel percorso si conosce, ma il mio lavoro consiste nel cercare quel che ancora non conosco, e lo devo fare in presenza del pubblico, altrimenti non vale.

Perché come dice J. Beck, il teatro è come il respiro di un bambino appena nato, dunque è qualcosa che nasce, che prima non c’è, è un “ansito vitale che si contrappone al silenzio invadente della morte”.

Voglio soltanto farvi notare come, ancora una volta Buchner (nel racconto “Lenz”) sviluppa con grande risalto l’episodio in cui Lenz tenta di resuscitare una bambina da poco morta (“Surge et ambula! Ma le pareti della stanza gli restituirono l’eco delle sue parole e la bambina rimase fredda, muta). Quel mancato miracolo, la sconfitta che annienta il mistico Lenz, nel lavoro e nel gioco dell’ attore, diventa radioso fallimento, tanto inevitabile quanto consapevole.

O meglio, direi che un attore consapevole dell’impossibilità di un ritorno alla vita, dovrebbe tentare (con infinita umiltà e con il capo cosparso di cenere come Lenz) di trasformare quel corpo morto quanto meno in un corpo agonizzante.

Tutto ciò in un ambiente dove i nostri sensi e la nostra esperienza non ci permettono di effettuare scelte sicure.

Ambiente caratterizzato dal concetto di “bianco”. (mi permetto di osar dire “concetto di bianco” dal momento che il bianco non è un colore)

Il bianco è un “non colore”. Forse si tratta di una coincidenza, ma per i giapponesi il bianco è il colore del lutto, viene cioè associato alla morte.

Se sommiamo le luci dei colori primari e dunque di tutti i colori il nostro occhio vede il bianco.

Se ascoltiamo l’intero spettro delle frequenze sonore otteniamo rumore di fondo che viene detto rumore bianco.

In realtà quel territorio è là dove tutti gli armonici si fondono, dove abbiamo a che fare con l’intero “spettro armonico”. Il bianco è il tutto. Quel territorio lo possiamo chiamare territorio bianco ed è pericoloso perché c’è tutto, ci sono tutti i suoni, tutti i timbri, tutti i colori; “tutto” può succedere. Quel trattino tra si e no è bianco.

 

 

 

2 ritmo

 

Confesso di avere una certa predilezione per le filosofie orientali, anche se non ne sono uno studioso (e tra l'altro sono completamente ed inequivocabilmente occidentale), ma quando leggo per cercare di capire quello che penso, mi capita di imbattermici spesso, spesso e volentieri. E trovo sempre qualcosa che mi colpisce e mi ferma, mi fa sostare piacevolmente.

 

E dunque anche nel caso di ciò che ho chiamato territorio gassoso, anche in questo caso, mi sembra di trovare una certa rispondenza, un riflesso, nel concetto giapponese di MA.

Probabilmente la sensazione di corrispondenza deriva semplicemente dal fatto che tanto mi risulta nebulosa l’idea di territorio gassoso, quanto nebuloso mi risulta il concetto di MA.

 

Ecco, dovrei ora provare a darne un'idea quanto più chiara e concisa possibile del concetto di MA.

Però non ci posso riuscire. Neppure i giapponesi sono in grado di farlo.

MA è concetto che tutto attraversa.

MA non è "qualcosa"; indica piuttosto un'entità "fra", un tempo fra due eventi, uno spazio fra due cose, una relazione.

I dizionari riportano molti significati: intervallo, spazio, fra, in mezzo a, distanza, periodo, pausa e finalmente "vuoto".

 

Vediamo il MA nell'arte: " MA è distanza di una rottura spazio-temporale, creata a partire da una originale lacerazione, non è né tempo né spazio, è una coscienza estetica. …. MA è la bellezza che si materializza con lo strutturarsi di una speciale condizione di rottura”. (Nishiyama Matsunosuke)

Il MA nelle relazioni sociali, per esempio nei saluti (inchino, ma anche stretta di mano), lo si può avvertire quando c’è armonia e corrispondeza, coincidenza di movimenti e forze.

Invece il MA tra i musicisti del teatro Noh è l’esatto contrario: le linee melodiche di voce e shamisen, devono sempre sorprendersi a vicenda con anticipi e ritardi inaspettati, cioè un vero e vivo dialogo. (questo è ciò che in un dialogo teatrale andrebbe fatto).

Mentre il MA nella danza del teatro Noh si manifesta con una breve interruzione del movimento  nel suo culmine dinamico.

 

Hideo Jingu, psicologo, parlando del MA dal suo punto di vista, dice:

“Gli esseri umani non possono percepire in modo cosciente e letterale l'ininterrotto scorrere delle particelle di tempo; in qualche modo ne devono interrompere il flusso continuo e così, dalla discontinuità che ne deriva, possono finalmente percepire in modo cosciente la durata del tempo. Questo rendere discontinuo si opera con un frazionamento. Ci sono dei casi in cui il frazionamento si fa in base a vuoti o cesure,  e altri in cui si basa sulla percezione di una differenza nella materia, sul contrasto ad esempio di pieno e vuoto.   Il frazionamento crea un tempo discontinuo, grazie al quale dal tempo della natura si passa al tempo ricomposto della vita umana, preservato dalla memoria. “

 

Direi che è proprio questo concetto di "tempo ricomposto e organizzato" che possiamo chiamare "ritmo".

Ma nel caso del teatro è preferibile, secondo me, chiamarlo "tempo discontinuo".

In questo modo si restituisce un’idea di irregolarità (un tempo scomposto ma non organizzabile), come l’irregolare casualità del battito del cuore, visto che noi teatranti spesso e volentieri ci serviamo di questo riferimento (che comunque rimane un riferimento vago e soprattutto incontrollabile, squisitamente aritmico).

 

Dunque c'è una grande differenza tra il concetto di ritmo in musica ed il concetto di ritmo in teatro.

In musica il ritmo per essere tale, necessita innanzi tutto di accenti, di una periodicità, di una ciclicità, la ripetizione di un modulo, di un pattern, mentre non è così per il teatro.

Sono due cose diverse ma conservano un elemento che le accomuna e c’è una parola che lo indica chiaramente: "andamento" (ciò che poco fa ho chiamato “swing”).

 

Una precisazione dovuta. Prima ho detto “tempo discontinuo ma non organizzabile”.

Non è del tutto esatto. Si dovrebbe dire non organizzabile a priori, ma da organizzare nell’atto.

 

Abbiamo dunque questi due elementi :  il territorio del drama e la necessità del ritmo. Bisogna dunque costruire ritmo in un infido territorio, mentre la terra viene a mancare sotto i piedi.

Il ritmo teatrico (che è diverso dal ritmo teatrale che è il ritmo di una composizione, è organizzazione ritmica formale di tutti gli elementi che compongono il quadro, mobile e sonoro) deve vedersela con la pericolosità dovuta al terreno inesplorato, dunque conviene (appunto per non perdere swing, andamento), tentare rapide sortite controllate, un’attività che possiamo chiamare di improvvisazione idiomatica in un quadro ludico-venatorio. (Ricordo che idioma è linguaggio proprio di un popolo o di un ambiente)

 

Se vogliamo parlare di elementi originari, costitutivi dell’arte del teatro,

possiamo senz’altro parlare di relazione e di “drama”.

 

Dramma è azione, ma proprio in quanto tale è anche necessariamente conflitto, lotta, attrito. Sapete che qualunque azione, qualunque passaggio tra uno stato di quiete e uno stato di moto, su questo pianeta, deve vedersela come minimo con la drammaticità dell’attrito.

In fisica l'attrito è definito come una forza che si oppone allo scivolamento di un corpo su una superficie.

Ma la superficie è infida perché indeterminata, ed il corpo è aritmico.

 

Dunque, cosa è preferibile fare del nostro corpo sulla scena? Simulare a tutti i costi un’assenza d’attrito (far finta che l’attrito non esiste) o giocare con le forze che si oppongono, con i propri limiti, compreso il sublime limite dato dell’idea del recitare, esponendo se stessi alle prese con il proprio inevitabile fallire?

Il nostro limite è proprio là dove si dovrebbe stare.

 

E aggirarsi in territorio ostile confliggendo con ciò che ancora non si conosce significa necessariamente dover “improvvisare”.

 

 

IMPROVVISAZIONE

 

 

Sono assolutamente convinto che attraverso la pratica dell’improvvisazione si possano attraversare stati di grazia.

Per stato di grazia intendo una perfetta comunione con tutto il circostante, persone e cose.

Peraltro so bene che il contrario dell’improvvisazione sortisce sempre un grande effetto, un effetto garantito.

Per “contrario dell’improvvisazione” intendo quella sorta di trance che ciascuno di noi si può procurare grazie ad una ripetizione ad libitum.

Questo tipo di pratica produce a lungo andare un livello di automatismo tale che, associato alla capacità di autosuggestione unita all’assenza di dubbio, può far sfiorare la trance.

Ma si tratta di una trance agonistica-emozionale, qualcosa cioè, che ha più a che fare con la prestazione sportiva che non con l’atto d’arte.

Come dicevo questo tipo di prestazione suscita sempre grande ammirazione, può persino emozionare di quell’emozione momentanea che si prova di fronte a un fenomeno sorprendente.

 

Ma in questo caso succede che l’attore esibisce la sue capacità e lo spettatore le fruisce: un onestissimo scambio di compravendita, dove chi aliena è nettamente separato da chi acquista (acquisisce).

C’è anche da dire che se poi lo spettatore soffre di ateatrìa, confonderà inevitabilmente quella calda prestazione agonistico-muscolare con il teatro tout-court.

Io parlo di improvvisazione, ma dovrei dire “sottile linea improvvisativa”.

L’improvvisazione di cui io parlo non è quell’espediente che viene adoperato in prova per trovare eventuali momenti buoni da “fissare” e dunque da uccidere. Ma quell’attività rischiosa, quella ricerca sul campo, quell’indagine di temi che deve essere condotta in presenza del pubblico.

Poiché trovare prima, imbalsamare e mostrare dopo è attività necrotica, da tassidermista o di tanatometamorfosi (imbellettare cadaveri).

 

Dunque vediamo qualcosa che ci parla in maniera chiara dell’improvvisazione. Vediamo un paio di musicisti:

 

 

SOPHIE VERONIQUE CHOPLIN 

 

 

 

 

 

DEREK BAILEY 

 

 

 

 

"Improvvisazione è la celebrazione dell’attimo" (D.Bailey).

 

“Qualsiasi tentativo di descrivere l’improvvisazione ne fornirà un’immagine falsa, perché c’è qualcosa di sostanziale, nell’improvvisazione volontaria, che si oppone agli scopi della documentazione e ne contraddice l’idea stessa”.(D.Bailey)

 

“Non si dovrebbe riascoltare un’improvvisazione. Si tratta di qualcosa che, se fosse possibile, si dovrebbe ascoltare, apprezzare o non apprezzare, e quindi dimenticare del tutto”. (Stephen Hicks, organista)

 

“A mio avviso il posto della musica è sul limite tra il noto e l’ignoto, ed è verso l’ignoto che bisogna spingerla, sempre. (...) L’improvvisazione possiede qualcosa che ha grande importanza. Si tratta di una freschezza, di una qualità particolare che si può ottenere solo improvvisando; qualcosa che sfugge alla scrittura. Ha a che fare con l’idea di limite. Stare sempre sul confine con l’ignoto, pronti al salto". (Steve Lacy)

 

 

(ci sono musicisti, ma anche attori, che considerano come progresso il perfezionamento del “già noto”, di ciò che si sa e non l’esplorazione di ciò che ancora non si sa è un atteggiamento occidentale molto italico, forse mi sbaglio, forse è atteggiamento che attraversa il mondo intero: conservare e perfezionare e se proprio non si riesce a perfezionare, che il teatro è materia sfuggente assai, quantomeno conservare).

 

 

 

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A questo punto vorrei citare Zeami: “Dimenticando la voce sappiate le modulazioni; dimenticando le modulazioni sappiate il tono; dimenticando il tono sappiate il ritmo.”

 

Un cantante canta, un attore dice. Possiamo chiamare canto anche il dire di un attore, se vogliamo, purché non si dimentichi che il suo dire è una sorta di canto ritmico, è un canto pieno zeppo di note fantasma, è un canto indeterminato e dunque indeterminabile, è per questo che per me è delittuoso volerlo determinare, fissandolo.

Il dire di un attore è come una musica fantasma.

 

Il lavoro di un attore è lavoro di ordine ritmico più che melodico, poiché la melodia non dev’esser scritta, fissata a priori, ma deve essere una risultante viva, conseguenza di un’azione di ordine ritmico.

 

Costruire ritmo e giocare con la grana della voce.

Questo è quello che un attore fa, dal punto di vista tecnico.

Ritmo e grana incarnati, costituiscono una sorta di “corpo sonoro”.

 

E allora, tornando alle parole di Zeami, io mi sono chiesto quale ne sia il significato.

Naturalmente dobbiamo fare le debite proporzioni. Dobbiamo tenere presente l’enorme distanza geografica, temporale e culturale che ci separa, però possiamo provare a capire un po’ meglio di che cosa parla Zeami.

Innanzi tutto va detto che il percorso che descrive lo dobbiamo immaginare come una Via (Do), dunque distribuito nel tempo di un’intera esistenza, non è certo questione di 3 anni di scuola e diploma.

 

 

Dunque:

 

 

“Dimenticando la voce sappiate le modulazioni”

 

C’è, secondo me un passaggio antecedente che Zeami dà forse per scontato e cioè il lavoro necessario per arrivare a “sapere” la voce (prima di poterla dimenticare).

Non è un dato acquisito la conoscenza della nostra voce.

Tutti noi, se andiamo con la mente ai nostri inizi, possiamo senz’altro ricordare la nostra incapacità di fare con la voce quel che si vorrebbe. Le prime volte che ascoltiamo la nostra voce registrata, per esempio, quasi non ci riconosciamo e non ci piacciamo.

E’ necessario dunque cominciare a prendere confidenza con la propria voce, evitando accuratamente tutte quelle persone che vorrebbero “educartela”.

Prendere confidenza per poter cominciare e in un secondo tempo tentare di conoscerla, per poterne assecondare i naturali cambiamenti; ma anche questo è lavoro di una vita.

Ma che significa dimenticare la voce per sapere le modulazioni?

 

Modulazione è concetto ancora strettamente legato alla tecnica. Modulazione è l’apprendimento del saper citare.

Prendiamo per esempio l’urlo.

Si può urlare davvero e si può simulare (citare) l’urlo.

Mettiamo che si debba recitare un testo che abbia come scelta formale una crescita regolare e progressiva di un urlo. Se non si possiede la tecnica della modulazione non si riuscirà a gestire con sicurezza la progressione. In questi casi quel che accade più frequentemente è il raggiungimento anticipato del massimo grado dell’urlo che costringe a proseguire in uno sforzo tanto estremo quanto inefficace.

La modulazione dunque ha un senso “melodico”: è la capacità di controllare e di gestire i colori (della voce).

 

Un altro esempio può essere il punto di domanda. Qual è la modulazione per un punto di domanda?

Prima dell’”intenzione”, è possibile esplorare tecnicamente una “domanda”?

Certamente ma solo quando si conosce la tecnica della modulazione.

Sapere la modulazione vuol dire iniziare ad esercitare la capacità di ascolto.

 

 

 

“Dimenticando le modulazioni sappiate il tono”

 

Direi che il passo successivo è quel che ci permetterà di dare ossigeno alla tecnica mediante il soffio, il respiro vitale.

Quando, da bambino, rispondevo a mia madre in modo inadeguato  lei mi  diceva: “rispondi a tono”. Rilevava, cioè, che le altezze e le intensità del mio dire, non erano adeguate alle sue, tanto che risultavo essere stonato.

La comprensione del “tono” è dunque, io credo, l’apprendimento della capacita di mettersi in relazione vitale con i compagni di scena. E’ l’esperire e il ricercare l’ascolto profondo, quello che va da persona a persona.

Sapere il tono vuol dire essere intonati.

 

 

 

“Dimenticando il tono sappiate il ritmo”

 

Eccoci dunque al passaggio finale. Sapere il ritmo vuol dire non occuparsi più del tono. Vuol dire vivere la propria vita sulla scena. Sapere il ritmo vuol dire, in qualche modo, occuparsi della morte.

Sapere il ritmo vuol dire saper scolpire il tempo (nel suo scorrere).

GHOST 3
Ghost 1
Deleuze
Organo
Chitarra
Sax
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