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Alfonso Maurizio Iacono

Con altri occhi

(la caverna, la finestra, l'attore)

Il punto di partenza è sempre la caverna di Platone. Questo luogo del sottosuolo, che tanta influenza ha avuto e continua ad avere in tutta la nostra cultura.

Il teatro è come una caverna, almeno dai  tempi di Wagner. Dobbiamo stare al buio e come in una caverna dobbiamo vedere quello che accade sulla parete, dall’altra parte. La caverna e il teatro hanno una cosa in comune:

i prigionieri di Platone e gli spettatori di un teatro, sto parlando dell’edificio che oggi si trova in ogni città del mondo, sono costretti a guardare solo di fronte. Questo teatro – il teatro moderno, il teatro contemporaneo -  quasi sempre costringe gli spettatori a guardare di fronte, ad avere un rapporto frontale con la scena e gli attori, con coloro che stanno davanti a voi, che parlano, fanno gesti, si muovono, rappresentano qualcosa stando dall’altra parte del sipario.

Il tema è quello della frontalità, dello stare di fronte, del guardare di fronte.

La frontalità ha alle spalle un’idea di conoscenza: quella segnata e determinata dal primato della visione. Vedere è un avere a distanza, un possedere senza toccare. e questo ci dà la strana sensazione di un’enorme potenza. Maurice Merleau-Ponty, avendo  riflettuto sul tema della frontalità, a proposito di Paul Cézanne, e in contrasto con la filosofia di Cartesio, ebbe a dire: “dopo tutto il mondo è intorno a me, non di fronte a me” .

Cosa significa esattamente che il mondo sta  intorno a me? Significa che esso non ci sta solo davanti, ma ci circonda e circondandoci, si fa ambiente.

Noi abbiamo acquisito la tendenza a vedere le cose di fronte.

Guardiamo lontano davanti a noi, in profondita’, ma spesso non ci accorgiamo di quel che ci sta accanto, dietro, sotto, sopra, intorno.

 

L’osservazione di Maurice Merleau-Ponty sul mondo che ci sta intorno porta con sé almeno tre conseguenze:

la prima, è che, se non identifichiamo piu’ la conoscenza con la visione frontale, possiamo riconsiderare il corpo, ripensare la corporeità, perché rimettiamo in discussione la gerarchia dei sensi e delle loro relazioni.  L’occhio vede con l’orecchio e con la mano, l’orecchio ascolta con l’occhio e con la mano, la mano tocca con l’occhio e con l’orecchio;

la seconda è che l’osservatore non può più essere ridotto al suo solo occhio, come se il corpo fosse un servo meccanismo dell’uomo che sta guardando;

la terza  è il rapporto tra il dentro e il fuori.

Così come ogni distinzione che in filosofia si presenta come dualistica, per esempio, soggetto/oggetto, copia/originale, immagine/realtà, il rapporto tra il dentro e il fuori, proprio perché riconsideriamo la gerarchia dei sensi,  si mostra invece ora come un rapporto di differenza, di rinvio, di rimando reciproco e non più come separatezza e rigidità dei ruoli.

Ecco perché l’occhio può ascoltare e toccare, l’orecchio può vedere e toccare, la mano può vedere e ascoltare il mondo che ci sta intorno.

Eppure spesso sono sempre le cose che più ci stanno vicino, accanto, intorno, quelle di cui non ci accorgiamo. Talvolta, l’eccesso di presenza e di evidenza non ci fa cogliere l’importanza delle cose.

Nel mondo moderno la frontalità ci rimanda ad un oggetto - banalissimo -  e che pure permea ogni aspetto della nostra vita. Non lo vediamo eppure è sempre davanti, dietro, accanto a noi. Questo oggetto, che racchiude in sé il tema della frontalità, è la finestra. Un oggetto banale, ovvio.

Un oggetto che è stato anche una metafora, di cui, come avrebbe detto Nietzsche, abbiamo dimenticato l’uso.

 

La finestra è una metafora che fu usata da Leon Battista Alberti nel 1435 quando scrisse e propose un metodo di costruzione della prospettiva, inaugurando così la tecnologia ad alta definizione.

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La finestra, come detto, è un oggetto banale.  Ma se si fa attenzione, se si smette di guardare questo oggetto troppo da vicino, perché da vicino, pur guardandolo, non lo si vede, e se invece se ne prende la distanza, allora forse esso apparirà in tutta la sua interessante stranezza. Del resto qualsiasi oggetto della vita quotidiana appare  strano, se lo guardiamo con altri occhi.

Non è certo casuale che fra gli oggetti che forse più ci stanno accanto in questo tempo, la televisione viene definita una finestra sul mondo, mentre il computer vive di windows cioè di finestre. E d’altra parte quando alle fermate dei bus e dei metro si inganna l’attesa con lo smartphone in mano, non si fa altro che entrare in rapporto con una piccola finestra che si apre ad altre finestre ancora più piccole.

In generale, tendiamo a concepire la conoscenza come mediata da una finestra. Ciò che sta al di là quadro, al di là dello smartphone, del computer, della televisione,del cinema,del teatro stesso è un interno o un esterno? 

Difficile rispondere.

Cosa c’è dall’altra parte del quadro? Il quadro che è come una finestra. Da un lato deve possedere la trasparenza: noi vediamo attraverso, e così attraverso il cinema, attraverso la televisione, attraverso il computer. Dall’altro, questa stessa trasparenza, questo vedere attraverso, è delimitato dalla cornice, cioè da quell’oggetto che ha la funzione pratica di permettere la percezione del confine. Senza cornici, cioè senza confini, noi non avremmo la possibilità di distinguere ciò che sta dentro il quadro - o quella finestra che è il quadro e che simula un esterno - da ciò che sta fuori di esso. Il dualismo moderno, una risposta rigida all’ambiguita’ del confine, si costituisce come un atteggiamento tecnico-scientifico. Potenza del vedere nel distacco. Mondo incontaminato, assolutezza del vero: l’oggettività è nella purificazione.

Vi è un quadro famoso che, giocando sull’ambiguita’, porta fino alle estreme conseguenze la nozione moderna di confine. Si tratta de Las Meninas di Diego Velazquez.

 

 

 

 

 

Mentre siamo noi spettatori guardiamo il quadro, anche i personaggi del quadro ci guardano. Vi è reciprocità. È come se non ci fosse più una separazione netta tra attori e spettatori. È come se Velazquez volesse andare ben oltre quel tipo di distacco che aveva caratterizzato la costruzione prospettica di Alberti, Leonardo, Dürer, Piero della Francesca .

Quando stiamo di fronte a Las Meninas,  non sappiamo più bene se siamo noi a guardare il quadro o se sono i personaggi del quadro che ci guardano. Il rapporto tra soggetto/oggetto, interno/esterno si fa ancora più ambiguo; tuttavia proprio questo dovrebbe essere il rapporto tra soggetti che comunicano, e a maggior ragione tra attori e spettatori e a maggior ragione in un contesto che si vuole democratico. Tali rapporti devono essere attraversati da un’ambiguità,  da un movimento, da una reciprocità che  in qualche modo, pur riconoscendoli come tali, non danno per scontati e immutabilmente fissi i ruoli.

Spesso, al contrario, si è pensata la relazione tra soggetti nei termini del rapporto tra soggetto e oggetto, come se l’altro fosse un oggetto da definire, descrivere, vedere, possedere, manipolare, dominare, talvolta anche distruggere. Invece è l’ambiguità che noi dobbiamo, da questo punto di vista, difendere, perché essa è parente stretta della reciprocità.

Il punto in cui Platone sbaglia, è nel rifiuto dell’ambiguità, è nell’idea che illusione e inganno abbiano lo stesso significato.

Qualunque atto al di fuori della verità cosiddetta pura, sarebbe un inganno. Vivere nell’illusione significherebbe ingannarsi. Nella caverna di Platone i prigionieri si stanno ingannando, ma è a causa della loro incapacità di percepire un confine.

Stanno in un mondo che noi sappiamo essere unico per loro.

Illusione non è sinonimo di inganno. L’illusione è parte della verità. Illusio viene da illudo, che significa giocare, scherzare, mentre inganno traduce fraus, cioè qualcosa che ha a che fare con frode, con imbroglio. L’idea di consapevolezza può aiutarci a capire il senso di questa differenza. Se decido di entrare volontariamente in un mondo della finzione, ciò significa che attraverso il campo dell’illusione per mezzo di un atto consapevole. Produco un atto di verità che è dentro la finzione, perché so di entrare in questo mondo e so anche che entrandoci, con la coda dell’occhio, sono in grado di percepire ciò che sta altrove, al di fuori della finzione. Questo passaggio è un momento di verità. L’inganno è frode: entro in un mondo di finzione, cioè dell’immaginario, senza sapere che si tratta di quel mondo, un po’ come i prigionieri incatenati che non conoscono altri mondi e dunque non sono avvertiti dei limiti di realtà della caverna.

Un qualunque interno chiuso, un sottosuolo, una grotta, un utero, forse un teatro, suscita sempre sentimenti e sensazioni contraddittorie.

Da un lato quando l’interno chiuso è buio, domina la paura causata dalla perdita di orientamento, dall’impossibilità di muoversi per mezzo di segni visivi, dall’insicurezza di un ambiente che improvvisamente diventa sconosciuto e ostile. Dall’altro lato, però, il buio di un interno chiuso può dare la sensazione di essere protetti, il senso di sicurezza del non essere visti ed osservati da altri che altrimenti potrebbero costituire una minaccia.

In fondo anche la paura ha il segno dell’ambiguità. eppure la paura, questo sentimento che non amiamo – o insomma, non amiamo provare – spesso ci salva, ci avverte di un pericolo, ci mette in allarme, ci fa battere il cuore, come direbbe William James, prima ancora di sapere perché esso batte così forte

Se noi teniamo conto della storia della caverna vi è un punto che merita un momento di  riflessione.

I prigionieri guardano le ombre sulla parete che hanno di fronte, ma non vedono delle ombre, perché non sanno che si tratta di ombre. Affinché ne abbiano consapevolezza essi devono conoscere cosa dell’ombra fa un’ombra. Dovrebbero, almeno con la coda dell’occhio, guardare altrove, intorno, ma non possono farlo.

 

Gli spettatori a teatro e al cinema invece possono farlo.  Questo che li rende differenti dai prigionieri della caverna di Platone. Quando andiamo a teatro entriamo in un mondo di illusione, e così pure quando andiamo al cinema (ma lo stesso si potrebbe dire quando ci immergiamo nella lettura di un romanzo appassionante). Ciò che ci distingue dal prigioniero incatenato è il fatto che sappiamo di entrare in un mondo di illusione, siamo consapevoli di questo passaggio. In tal senso somigliamo di più, o potremmo somigliare di più, al prigioniero liberato. Costui attraversa il confine tra il mondo dell’illusione e i mondi altri, ed è proprio l’attraversamento che lo rende consapevole della differenza tra mondi. Se in quanto spettatori paghiamo il biglietto e aspettiamo che per tre volte si spenga la luce, stiamo scegliendo, per usare il termine di Coleridge, di sospendere temporaneamente, ma volontariamente l’incredulità.

Noi facciamo dunque un atto consapevole, quello di entrare in un mondo illusorio. A differenza del prigioniero incatenato, noi produciamo un libero atto di verità, perché sospendiamo l’incredulità e entriamo nel mondo dell’illusione: non ci stiamo affatto ingannando. L’illusione non è sinonimo di inganno: l’illusione ha a che fare con la verità, è un aspetto della verità. Non è la somiglianza talmente ben riuscita da annullare la differenza tra copia e originale a costituire la verità dell’illusione, ma al contrario il fatto che tra copia e originale vi è differenza. Una copia dovrebbe saper fare la sua strada, dovrebbe liberarsi,  autonomizzarsi, cessare di essere copia e vivere una vita propria.

Da copia, come ha osservato Coleridge, trasformarsi in imitazione:”un grande attore, comico o tragico, non è una mera copia, un facsimile, ma una imitazione, della natura. Ora una imitazione differisce da una copia in questo, che essa di necessità implica e domanda differenza – mentre una copia punta all’identità”.

Anche per Goethe un’opera d’arte non può né deve essere una mera copia della natura. L’imitazione implica sempre e necessariamente il tradimento, l’insinuarsi della differenza nella somiglianza.

Il teatro, o l’arte in generale, pur avendo sempre un rapporto col mondo a cui fa riferimento e che tende ad imitare, anche se non perde questo riferimento, lo trascende, lo trasvaluta. Nel teatro, un po’ come nella pittura, la riproduzione di mondi della vita quotidiana, diventa qualcos’altro, e spesso diventa più vera della vita.

Molti personaggi da Amleto a Paperino, frutto dell’immaginazione, hanno preso vita propria influendo sul mondo molto più della maggior parte degli esseri viventi.

Sappiamo bene che a teatro, se a qualcuno suona inopinatamente un telefonino, questo irrita fortemente tutti. Ma perché irrita fortemente tutti? Perché colpisce e minaccia un patto, ovvero quel processo consapevole che tutti gli spettatori avevano fatto con se stessi, con gli altri spettatori e con gli attori, di sospendere l’incredulità. Il suono del telefonino infatti ci ricorda in modo violento che vi è qualcos’altro. Ma cos’è questo qualcos’altro? Come facciamo a dividere e a condividere il mondo dell’illusione del teatro con il mondo di fuori? Discutendo di finestre, era fatto cenno alla cornice. Questa è ciò che fa di un quadro un quadro, è ciò che dà un contesto. La cornice crea una differenza fra i significati racchiusi all’interno del quadro e il mondo a esso esterno. Ora, in linea di principio, è lo stesso per la fotografia, il cinema, la televisione, il computer e anche il teatro: noi abbiamo bisogno della cornice perché essa, visibile o invisibile che sia, è esattamente quella che ci avverte che noi entriamo o dobbiamo uscire da un mondo.

Se i prigionieri della caverna avessero potuto attraversare una cornice, probabilmente non sarebbero stati così minacciosi nei confronti del prigioniero liberato perché si sarebbero resi conto che al di là del mondo in cui vivono vi è un altrove. La cornice è l’avvertimento che si entra in un mondo uscendo da un altro.

Vi possono essere varie  forme di avvertimento, assai complesse.

L’ironia, per esempio, è lo stare a cavallo di una cornice, è un porre in dubbio il mondo e le cose affermate mentre sono affermate.

L’ironia gioca sull’ambiguità. Ecco un termine che ritorna: l’ambiguità.

Essa fa sì che una cornice, anziché separare, unisce i mondi proprio mentre le distingue. L’assenza di cornice confonde i mondi e toglie la libertà di scegliere.

Don Chisciotte confonde i mulini a vento con i saraceni e noi ridiamo perché sappiamo che i mulini a vento non sono saraceni ma sono mulini a vento; non riderebbero i prigionieri incatenati perché non sarebbero in grado di distinguere il mondo dei saraceni dal mondo dei mulini a vento e di compararli. Essi ridono del prigioniero liberato semplicemente perché costui vede saraceni e loro, che scorgono sulla parete di fronte soltanto mulini a vento e non saraceni, pensano che egli sia fuori dalla realtà perché non condivide più del tutto il loro mondo.

L’essere avvertiti della cornice corrisponde all’essere autonomi in una società democratica. Se perdiamo la facoltà di avvertire l’attraversamento della cornice oppure se questa facoltà è stata tolta, allora ridiventiamo come i prigionieri incatenati della caverna di Platone, naturalizziamo ciò che naturale non è.  Se perdiamo la cornice, accettiamo il mondo così com’è, presente, eterno, ovvio, immutabile, rassicurante. Finiamo con il dimenticare che, come diceva Marx, le idee dominanti non sono altro che le idee della classe dominante. Entriamo in un mondo totalitario anche quando questo si mostra come libero e democratico, perché l’essenza del totalitarismo è il dimenticare che vi sia qualcosa al di fuori di ciò che ti viene offerto e imposto come mondo, così che ci si abitua alla servitù senza la consapevolezza di essere servi, ci si adatta all’accettazione delle cose esistenti pensando di essere liberi senza esserlo, si sospende volontariamente e forse per sempre la capacità di non credere.

L’essere invece avvertiti di una cornice, capire il fatto che i mondi sono più di uno e che noi possiamo entrare e uscire da questi mondi e guardarli con altri occhi, dal di fuori oltre che dal di dentro, credo che sia il punto che caratterizza il ruolo dello spettatore, ma anche dell’attore, il quale, come il cittadino che non vuole diventare suddito, possiede questa capacità di essere, come dire, uomo autonomo, in grado di uscire dalla caverna, ma di saperci anche rientrare, mantenendo un rapporto di tensione con il personaggio che interpreta, foss’anche se stesso.

Tuttavia, forse stiamo vivendo un’epoca in cui la differenza tra il prigioniero liberato e i prigionieri incatenati si sta assottigliando sempre più. L’ambiguità diventa confusione. Forse non è più il tempo del prigioniero liberato che non viene creduto, ma quello in cui la credulità e l’incredulità si fondono, le cornici si assottigliano fin quasi a scomparire e il senso delle cose si perde. Non riusciamo più a vedere al di fuori della caverna. Non siamo più capaci ormai di guardare l’interno stesso della caverna, con altri occhi. Non è una novità. Già Erasmo da Rotterdam si era accorto di tale pericolo: “vi par che esista qualche differenza, egli scrive, tra quelli che, come si legge in Platone, stanno nella loro caverna e il saggio che ne è uscito? Gli uni guardan con meraviglia le ombre e le immagini dei diversi oggetti, ma senza nutrire alcun desiderio, e son perfettamente soddisfatti; il saggio invece vede le cose come sono, ma non c’è differenza”.

Ma una societa’ democratica, fatta di individui autonomi, non si realizza compiacendo le rassicuranti e conservative certezze del senso comune, bensì quando è in grado di rendere possibile a tutti la facoltà di avvertire i confini, di attraversarli, di guardare con altri occhi ciò che stiamo guardando senza vedere.

Scrive Iris Murdoch: “In quel punto, a causa dei movimenti che gli attori stavano eseguendo, il palcoscenico scricchiolò e il fondale di stoffa ebbe un leggero fremito. Questo rumore mi ricondusse alla realtà”. Ma forse non siamo più in grado di percepire il rumore che proviene da fuori.  Una società democratica dovrebbe tenere in sé questo rumore di realtà che è esattamente quello che tiene lo spettatore contraddittoriamente legato alla scena e l’attore conflittualmente vincolato al personaggio. La grazia che un attore può raggiungere non è data dall’assenza di conflitto con il suo personaggio, ma dal suo essere personaggio rimanendo se stesso, come un doppio il cui sé si accompagna ambiguamente e criticamente all’io senza confondersi con esso.

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