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Bruna Filippi

La macchina del tempo storico e del teatro[1]

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Il tempo storico

 

Il tempo è la materia fondante il mestiere dello storico che nel corso della sua ricerca deve “riconfigurare” l’esperienza del tempo di uomini che appartengono a un’epoca passata più o meno remota. Per arrivare a questa riconfigurazione temporale lo storico indaga la “storicità”, cerca cioè di focalizzare i modi in cui gli uomini del passato articolavano il presente, il passato e il futuro.

Marc Bloch, padre fondatore della scuola storiografica degli Annales, ricorda quanto sia importante conoscere il presente per comprendere il passato:

In verità, in modo cosciente o no, è sempre alla nostra esperienza quotidiana che […] noi prendiamo in prestito, in ultima analisi, gli elementi che ci servono per ricostituire il passato: gli stessi nomi che usiamo per caratterizzare gli stati d’animo scomparsi, le forme sociali svanite, quale senso avrebbero per noi se non avessimo visto prima di tutto vivere gli uomini?[2]

La conoscenza storica sarebbe quindi un processo a ritroso nell’ordine cronologico, un partire dal presente per comprendere il passato. Se quindi lo storico guarda al passato con gli occhi del presente, non può comunque esimersi dal considerare le categorie temporali elaborate dallo stesso passato. Questo significa che quando noi storici analizziamo un documento, una fonte storica, lo facciamo secondo le “categorie di rappresentazione” della sua epoca e valutiamo gli elementi che sono considerati “storicamente pertinenti”: interpretiamo cioè il passato con le categorie elaborate nel passato, proprio per cogliere quella “necessità” rappresentativa, intellettuale e sociale, che ci permette di comprendere come le stesse categorie di passato, presente e futuro siano vissute, come esse siano dette e come acquistino senso in un determinato momento storico.

La definizione, nella ricerca storica, dell’uso dei modelli di tempo del passato è di estrema difficoltà e implica di adottare delle “precauzioni” e dei “controlli” che non sono solo di ordine metodologico. Sempre Bloch diceva che la pratica storica deve essere fondata sul dubbio metodologico; bisogna, diceva, incamminarsi “all’inseguimento della menzogna e dell’errore” con l’applicazione di “un metodo critico” da elaborare in maniera razionale, perché anche il nostro stesso presente sfuma e, citando Goethe, diceva “non esiste il presente, non c’è che un divenire”.[3]

Il passato, in quanto oggetto principale della scienza storica, deve quindi sottomettersi al fuoco del dubbio metodologico, in cui lo stesso passato deve essere decantato, deve diventare “il passato che gli uomini fanno” e deve essere quindi implicato in un’antropologia del tempo. Ogni storia è una storia di uomini. Bisogna quindi criticare le nostre stesse categorie per cogliere “la molteplicità dei tempi intrecciati, decifrare il campo archeologico” per ritrovare gli indici e i dati temporali degli uomini del passato. Si tratta d’indagare un tempo che non è esattamente il passato, ma piuttosto ciò che la stessa “memoria” ci trasmette del passato, per cogliere l’armonia delle sopravvivenze anche nel nostro ruolo di discendenti che conservano tracce di quel passato. E’ la memoria che umanizza e configura il tempo, intreccia le sue fibre, assicura la sua trasmissione. Questo ha significato introdurre nella ricostruzione del passato, o nella decantazione del tempo, un fenomeno di selezione psichica nel processo e considerare gli effetti di montaggio che permangono come anacronismi nella memoria.

Il riferirsi a un’antropologia del tempo ha significato l’accettazione della poliritmia storica secondo  cui “in ogni oggetto storico si possono rincontrare tutti i tempi”. A proposito di questa poliritmia del tempo storico, George Didi-Huberman nel suo Devant le temps ha introdotto l’anacronismo (considerato da sempre nella ricerca storica un errore fatale) come un paradigma centrale nell’indagine storiografica. Studiando l’affresco del convento di S. Marco a Firenze, dipinto verso 1440 dal Beato Angelico nel corridoio centrale della clausura, egli rileva come il paradigma dell’anacronismo gli permetta di comprendere le diverse temporalità che emergono dall’opera. Questo affresco si trova sotto il dipinto della Santa conversazione e si configura come un lembo di colore rosso coperto di macchie erratiche proiettate a pioggia dal pittore che sembrano comporre  una costellazione di stelle fisse. Didi-Huberman riporta l’esperienza del suo stesso sguardo, arrivando a definirlo come “presente reminiscente”, e non può che arrivare alla conclusione di trovarsi davanti a un’opera d’arte “astratta”. Come storico che indaga un oggetto d’arte del passato, il quale si rivela al suo sguardo come più moderno dei moderni, non può che studiarne, dice, la fecondità dell’anacronismo[4].

L’analisi storica deve quindi fare i conti con la pluralità dei modi temporali, ognuno con la propria specificità. Non c’è più un passato rivisitato e messo alla prova delle suggestioni del presente, ma piuttosto la concomitanza di tutti i tempi che permettono di comprendere la “storicità” di un’opera del passato, cioè come un individuo o una collettività si situa e si sviluppa nel tempo. Questa deflagrazione dei modi temporali nel campo della ricerca storica è dovuta senz’altro al nostro modo singolare di considerare il tempo. La particolarità della società attuale, in cui noi tutti siamo immersi, è dominata da un presente onnicomprensivo che rompe e annulla il legame che lo legava al passato e al futuro. Siamo confrontati all’incapacità collettiva di sottrarsi al “presente”. Noi viviamo in una società in cui solo il presente vale, viviamo un “presentismo” sottomesso alla tirannia dell’istante, in cui il rapporto con il passato è reciso e il futuro è diventato impensabile. In questo presente perpetuo, invasivo e dilatato, che s’impone come l’unico orizzonte possibile, lo storico non può che esercitare il suo dubbio metodologico rendendosi “estraneo a tutto ciò succede oggi” per operare “una distanza da sé, uno straniamento, cercando di elaborare uno sguardo distante”[5].

Per istituire questo “sguardo distante” lo storico oggi deve innanzi tutto impegnarsi in quella che Michel Foucault chiama archeologia critica della storia, nella quale si analizzano i modelli del tempo del passato, includendo anche una critica degli stessi valori d’uso del tempo adottati nella scienza storica, criticando gli stessi atti di temporalizzazione dello storico[6]. Questo atteggiamento critico verso le nostre stesse esperienze temporali ci permette di conquistare uno sguardo in grado di cogliere la rottura che s’instaura fra tempo presente e passato, di indagare cioè come le esperienze temporali siano in grado di istaurare delle tensioni fra il campo delle esperienze e l’orizzonte di attesa, fra le forme dell’esperienza del tempo che costituiscono e abitano la vita o le opere degli uomini e le aspirazioni che le guidano. Per guadagnare in intelligibilità è quindi necessario riferirsi alle crisi e ai momenti di svolta e di rottura, perché permettono di interrogare quelle che si ritenevano delle evidenze per porre delle domande alle nostre stesse categorie. Revisione critica delle nostre stesse categorie temporali, centralità dell’esperienza umana del tempo e analisi delle tensioni che emergono e si evidenziano nel campo della “storicità” nei periodi di crisi , sono gli assi intorno ai quali il lavoro dello storico si sviluppa e si confronta con il tempo.

 

Dal teatro del tempo storico alla storia del teatro

 

Studiare il teatro nella storia implica riferirsi alla realtà temporale e circostanziale dell’accadimento hic et nunc dell’avvenimento teatrale, del suo essere espressione –come ricordava Fabrizio Cruciani[7]– dell’immanente nel presente. Ogni teatro, anche in tempi e modi remoti, avviene come atto del presente e lo storico deve quindi elaborare un processo di attualizzazione di questa immanenza del presente, cogliendo tutte le possibili molteplicità che abitano quel particolare presente proprio per cercare di restituire alla tradizione, al passato, il suo presente.

Nella mia ricerca storica sul teatro dei gesuiti nel Seicento, proponendomi d’indagare l’esperienza del tempo degli uomini che allestivano le rappresentazioni teatrali nel Collegio Romano, mi sono confrontata con le concezioni del tempo di una comunità in cui erano dominanti la Chiesa e la Religione, in un momento storico di grande crisi religiosa dovuta al conflitto con i protestanti per la scissione della Riforma. Nell’epoca post-conciliare in cui si trovavano a operare i gesuiti romani, impegnati nella riaffermazione istituzionale dei valori cristiani, l’esperienza del tempo assumeva forme e modi propri: la vita degli uomini era profondamente impregnata dalla storicità cristiana fondata sulla Redenzione e l’Incarnazione di Cristo, la quale inscriveva la separazione fra il “prima” e il “dopo” del tempo metafisico nell’articolazione temporale fra il presente, il passato e il futuro. Alla centralità di questa concezione metafisica del tempo è stato necessario relazionare la singolarità delle forme rappresentative del teatro sacro dei gesuiti che facevano un ricorso costante all’immediato e all’istante come modalità temporali fondamentali per lo svolgersi del dramma, ampiamente utilizzate nel teatro del tempo. Il teatro barocco, che ha fatto della metafora il suo principio dinamico, ha messo in gioco delle tecniche espressive che esasperavano la raffinatezza fino all’ossessione dell’artificioso ed esprimevano una sensibilità ampiamente segnata dall’instabilità e dal dubbio sulla limpida visione rinascimentale del mondo, producendo un mondo “sdoppiato”, ricco di metamorfosi e di giochi analogici.

Cercare di cogliere nel complesso mondo degli specchi barocchi i diversi tipi di temporalità che costituivano e abitavano le tragedie cristiane dei gesuiti nel Seicento, è assai complesso proprio per il ruolo avvolgente del suo referente che determina ogni azione. Prima di tutto, si tratta quindi di approfondire i presupposti teologici e antropologici che organizzano, dirigono e animano il “fare teatro” dei gesuiti. E’ all’interno di questo quadro di riferimento, che possiamo dare senso sia alle azioni degli attori in scena, sia alle percezioni degli spettatori. Sono questi presupposti che informano e conformano i modi temporali della pratica scenica, imprimendo ritmi e sviluppando concezioni del tempo particolari. La ricognizione poi di alcune forme tipiche del teatro barocco, ci permetterà di isolare alcune tensioni artistiche che imprimono ritmi e modi temporali particolari al linguaggio teatrale. Questo inquadramento preliminare, ci acconsentirà d’inoltrarci in un’analisi più particolareggiata delle temporalità della “tragedia cristiana” in cui si cercherà d’individuare le forme del tempo del teatro gesuitico prodotto nel Collegio Romano, il più importante collegio della Compagnia di Gesù nel Seicento. 

  

 

Il teatro “pro Fide” dei gesuiti

 

Dopo il Concilio di Trento, la Compagnia di Gesù è in prima linea all’interno della Chiesa nell’impegno militante per la riaffermazione istituzionale e culturale dei valori cristiani. Fra le numerose attività apostoliche, la formazione dei giovani (laici ed ecclesiastici) e le missioni nei nuovi continenti che le scoperte geografiche hanno fatto conoscere al mondo, sono i principali impegni che i gesuiti assumono con grande devozione, portandoli ad agire, come illustra il loro motto, ad maiorem Dei gloriam.

Modello di esercizio retorico sin dall’antichità, il teatro era praticato nei collegi gesuitici per affiancare all’acquisizione dei principi retorici un’esperienza concreta in cui l’allievo sperimentava la propria esibizione davanti a un pubblico. In teatro, l’allievo-oratore metteva alla prova il sapere retorico, mentre incorporava i buoni comportamenti ed elaborava i giusti proponimenti che ispiravano gli esempi straordinari delle tragedie cristiane. Uno storico gesuita, François de Dainville, descrive recentemente così la funzione pedagogica del teatro e l’impatto pregnante –fisico e mentale– che aveva nel giovane allievo l’evocazione drammatica:

“… evocazione che si rivolge non solamente alla vista ma all’insieme dell’essere, inculcando l’idea nell’intelligenza, nel cuore e nel cervello del giovane e in tutta la sostanza fisica e mentale, incidendo come un bulino fra i più penetranti, quello dell’emozione drammatica”[8].

Il teatro dei gesuiti metteva in scena le storie di santi, di martiri e di principi cristiani, al fine di rappresentare degli esempi di virtù per promuovere l’edificazione spirituale e morale. Le rappresentazioni di queste “tragedie cristiane” erano organizzate nei collegi affinché i soggetti che vi partecipavano (attori e spettatori) potessero interiorizzare e fare propri gli elementi caratteristici di questi grandi esempi virtuosi per farli diventare una pratica di vita. Il teatro era una pratica di rappresentazione che doveva indurre gli attori e gli spettatori a trasformare sé stessi nella Fede, per far passare le storie, le credenze e i riti nella vita quotidiana di ognuno, nel corpo e nel cuore di ognuno. Non si trattava quindi di trasmettere una semplice credenza in Dio, ma di un coinvolgimento sentimentale e spirituale per rendere i contenuti cristiani attivi in maniera vitale.

Questa pratica teatrale s’inscriveva in uno sfondo antropologico e teologico specifico che organizzava le conoscenze, orientava le pratiche e dirigeva i modi di percezione sensibile dei credenti. All’alba della modernità, la società viveva nell’egemonia della Chiesa e le concezioni dell’uomo e del suo agire religioso e morale apparteneva per intero alla Religione che imponeva di rispettare i suoi dogmi e di seguire i suoi riti e cerimonie. Nel momento di crisi e di riforma della chiesa cattolica dopo il concilio di Trento, la cultura religiosa –benché in rapida trasformazione e malgrado le feroci confutazioni per la sua messa in discussione da parte della filosofia naturale e delle scoperte scientifiche–, si manteneva dominante anche se con qualche incrinatura nel tessuto coerente della tradizione.   

L’educazione gesuitica, rifacendosi alla nozione aristotelica di habitus ossia di seconda natura, perseguiva le qualità che dotavano l’uomo di stabilità nell’agire e una padronanza nei comportamenti. Gli abiti mentali e fisici che la scuola gesuitica insegnava ad acquisire erano una capacità, un arricchimento personale e un perfezionamento che riguardavano l’essere umano nella sua integrità. Nel pensiero di S. Tommaso l’habitus è ciò che è innato e l’insieme del sapere acquisito, mentre ciò che porta alla perfezione le potenze operative dell’uomo sono le virtù. Ci sono degli habitus che hanno a che fare con l’essere umano nella sua globalità e quelli che invece riguardano una delle potenze di agire nell’uomo (abiti operativi) di cui fanno parte le virtù[9]. La qualità dell’uomo cristiano si determina progressivamente attraverso i suoi atti, e la ripetizione degli atti virtuosi sviluppa nelle facoltà umane un’abilità e una facilità nell’affrontare con padronanza il progresso intellettuale e spirituale. Attraverso questa ripetizione degli atti, l’uomo si modella interiormente, si costruisce nel bene e nel male e si crea delle abitudini. Il termine di abitudine non implica però l’acquisizione di automatismi, ma piuttosto deve indurre allo sviluppo delle determinazioni fisiche e mentali dell’uomo affinché agisca rendendo docili le mozioni della volontà e della ragione. Nella scuola gesuitica non si contraevano abitudini ma si coltivavano delle disposizioni personali, degli habitus. Secondo il sociologo Pierre Bourdieu gli habitus operano come delle “strutture strutturanti” e sono dei “principi generatori e organizzatori delle pratiche e delle rappresentazioni”[10].  Per i gesuiti che fondavano il loro operare nella teologia scolastica di S. Tommaso, gli habitus dovevano penetrare la sensibilità e il campo affettivo per regolarli e spiritualizzarli.        

Secondo l’antropologia cristiana, l’uomo è quindi un essere in “divenire”, chiamato a svilupparsi e a crescere attraverso degli atti che gli permettono di acquisire progressivamente una maggior padronanza di sé. Questa dialettica di trasformazione e di crescita costante proviene dalla natura spirituale dell’uomo, dalla sua natura di spirito incarnato. All’interno dell’uomo c’è quindi una tensione permanente, una lotta spirituale fra le sue potenzialità di scelte concrete e la necessità etica di rimanere fedele a un impegno vitale di permanente conversione del cuore. La luce della Fede, mettendo questa finalità nell’unione con Dio, accompagna e rafforza il cristiano nel suo costante percorso di crescita.

Alla base di questa concezione antropologica c’è una precisa “storicità” in cui si fonda la vita religiosa dell’uomo: all’antropologia perfetta voluta da Dio, segue un’umanità imperfetta segnata dal peccato originale, a partire dal quale tutte le età successive del mondo sono tante tappe verso la riconciliazione con Dio. L’enunciato fondamentale di tale antropologia è il versetto della Genesi (1, 26) in cui l’uomo è creato a “immagine e somiglianza di Dio” ma il peccato originale perturba questa relazione d’immagine e di somiglianza con Dio. La vita cristiana si dispiega allora nella tensione fra la relazione d’immagine e somiglianza istaurata all’inizio dal Creatore, la sua perdita parziale dovuta al peccato originale e la possibilità di restaurarla, offerta dal sacrificio redentore di Cristo. L’Incarnazione è il momento decisivo –che separa il tempo della storia in un “prima” e un “dopo”– e che permette di recuperare il rapporto d’immagine con la divinità, iscrivendo l’uomo in un campo di possibilità estremamente aperte. Dalla venuta di Cristo in terra, si dispiega la tensione propria dell’uomo cristiano: preso fra la tentazione del vizio e la promessa del ritorno a Dio, fra una relazione pervertita dell’anima e del corpo e la speranza di una configurazione ideale di tale relazione. In questo conflitto permanente, l’agire personale dell’uomo cristiano s’intreccia con gli interventi delle forze del Bene e del Male.

 

La persona: la triade corpo/anima/Dio

 

L’agire dell’uomo messo in rappresentazione nelle tragedie cristiane dei gesuiti acquista senso e diventa intelligibile solamente se riferito alle concezioni della persona che la stessa società elabora, le quali impregnano i sistemi di rappresentazione e s’intrecciano alla logica dell’intera società. In una società in cui la chiesa è dominante, la sua legittimità deriva dai principi spirituali che la animano e dalla sua capacità di spiritualizzare le realtà materiali. Il concetto di persona[11], la cui etimologia stessa rinvia alla maschera o alla dramatis persona del teatro, nella tradizione cristiana fonda un dinamismo spirituale che supera il dualismo fra il corpo e l’anima e tende a produrre una loro articolazione positiva: l’essere umano è concepito dalla congiunzione di due entità, il corpo e l’anima, ed è costituito dalle configurazioni relazionali (interne e esterne) che sviluppa per mettersi in rapporto con Dio.

Nella storia del concetto di persona, si può rilevare però che solamente nell’ultimo quarto del XII secolo l’essere umano da homo comincia a essere qualificato come persona. Sono proprio i teologi del XII e del XIII secolo che pensano a un’unione positiva dell’anima con il corpo. Parlano di amicizia e lo stesso san Bonaventura sottolinea che non c’è niente di indegno per l’anima a essere unita al corpo. Ugo di san Vittore rileva l’armonia che caratterizza sia l’anima che il corpo e il legame che li unisce[12]. L’anima è legata al corpo dagli affetti, che danno al corpo movimento e sensibilità. L’idea di un’armonia costitutiva della persona umana si trova soprattutto nella teoria di S. Tommaso che si basa sull’ilemorfismo aristotelico. Secondo Aristotele l’essere umano è costituito dalla dualità soma/psyché ma non è pensato in modo dualista ed è considerato piuttosto come un caso particolare dell’articolazione fra la Forma e la Materia (come indica l’etimologia di ilemorfismo derivata dal greco hyle materia e morphé forma). Definita come la “forma sostanziale del corpo”, la psyché o anima non è più concepita come autonoma dal corpo e l’uomo non è più pensato come l’unione di due sostanze separate ma come una unità nel quale l’interdipendenza fra l’anima–forma e il corpo–materia è totale. Quest’unione è necessaria sia alla pienezza della persona umana, sia alla stessa perfezione dell’anima che non può sussistere separata dal corpo, proprio perché incapace di sviluppare le proprie facoltà cognitive. La concezione tomista è un superamento dell’idea dualista dell’uomo e introduce una dinamica anti-dualista. Egli definisce la persona come l’unione delle due entità, corpo e anima, e dalla loro articolazione perché ognuna di loro sviluppa delle relazioni differenti: nel corpo s’iscrivono le relazioni con il mondo, mentre nell’anima quelle esclusive con Dio.    

Come abbiamo già accennato, la vita cristiana si dispiega nella tensione fra la relazione d’immagine e somiglianza istaurata all’inizio da Dio, dalla sua perdita parziale dovuta al peccato originale e dalla possibilità di restaurarla, offerta dal sacrificio redentore di Cristo. Per S. Tommaso, la relazione d’immagine riguarda l’anima e più specificatamente la mens, la sua parte intellettiva. Mentre l’anima è quindi all’immagine di Dio, il corpo è all’immagine del mondo. L’insieme delle relazioni fra mondo/corpo, corpo/anima, anima/Dio costituiscono la triade corpo/anima/Dio in cui l’anima è posta in situazione mediana fra il corpo e Dio. L’umano non si definisce quindi dalla relazione corpo e anima, ma dalla duplice relazione istaurata fra il corpo e l’anima e fra l’anima e Dio. La dualità corpo e anima funziona allora nell’articolazione fra il corporale e lo spirituale con la triade della relazione corpo/anima/Dio[13]. Tutte due sono situati nella dinamica “fra due” entità che dipendono dal rapporto gerarchico con la divinità: fra Dio e l’anima e fra l’anima e il corpo.

Nella tradizione cristiana le concezioni della persona sono quindi fondamentali per comprendere i processi spirituali dell’uomo ma, soprattutto, per formulare le due verità di fede essenziali: il dogma della Trinità (Matteo, 28, 19) e il dogma dell’Incarnazione. Attraverso questi due dogmi la persona cristiana modella e realizza il suo essere nel mondo, che gli permette di dirigere le proprie percezioni sensibili verso la propria interiorità e di percorrere le tappe verso la riconciliazione con Dio.

L’Incarnazione costituisce il momento decisivo del recupero del rapporto d’immagine con la divinità ed è la matrice fondamentale dell’articolazione fra il corporeo e lo spirituale nell’uomo. L’unione fra la natura divina e umana di Cristo è pensata in modo omologo e analogo a quella  dell’unione dell’anima e del corpo nell’uomo.  Questa analogia diventa esplicita in San Tommaso, che dichiara “dall’unione dell’anima e del corpo risulta la persona o ipostasi dell’uomo”. Sin dai primi secoli cristiani, nel concilio di Calcedonia (451), si stabilisce l’unione delle due nature di Cristo in una sola persona (ipostasi); mentre nel corso del IV secolo la dottrina della Trinità si elabora come una sola essenza in tre persone. Ipostasi dell’uomo e concezione trinitaria del divino sono quindi i fondamenti sui quali le percezioni umane si sviluppano, basate sui sensi corporei che diventano il passaggio obbligato per accedere ai significati spirituali: è perché Dio si è fatto uomo e quindi carne per rendersi accessibile agli uomini con i sensi, che è legittimo passare per delle rappresentazioni sensibili per onorarlo.  E’ perché Dio è “Uno e Trino” nelle tre persone coesistenti del Padre, Figlio e Spirito Santo, che ogni apprendimento del mondo avviene con un processo relazionale e partecipativo, posto sotto il segno del soffio dello Spirito Santo che lega i tre livelli della gerarchia: il Padre, il Figlio e il mondo creato e quindi l’uomo.

La triade corpo/anima/Dio associata alla Trinità diventa così il luogo in cui si sviluppa la dinamica spirituale che permette all’uomo ogni acquisizione della conoscenza: dalle realtà corporee, limitate nel tempo, passando per l’anima si arriva alle realtà eterne. Questo processo si basa su una precisa attribuzione del tempo: Dio si muove fuori del tempo e dello spazio; il corpo invece si muove nel tempo e attraverso lo spazio e, in posizione intermedia, l’anima si muove nel tempo (che significa che può cambiare nel tempo, senza alcuna interferenza spaziale).

Questa dinamica temporale, tesa al recupero del rapporto d’immagine con Dio, è individuata nel termine imago. Nel pensiero patristico e in tutta la tradizione medievale, prima di designare l’immagine materiale tale termine definisce la relazione del Padre al Figlio nella Trinità e da questa all’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza[14]. I modi dell’apprendimento di Dio inducono nell’uomo tre tipi di sguardo legati a tre movimenti: meditazione sul mondo sensibile, riflessione dell’anima su sé stessa, contemplazione del Trascendente, ai quali corrispondono lo sguardo della sensibilità sul corpo esteriore, quello dell’intelligenza che compone delle immagini mentali e quello dello spirito teso alla contemplazione diretta della Verità. In quanto riflessi della Trinità celeste, le potenze dell’anima (memoria, intelligenza e volontà) operano perché ogni stimolo che proviene dal mondo esterno sia orientato verso l’interno: a partire dalla sensibilità percepita dal corpo attraverso i sensi, l’anima compone delle immagini mentali che trasformano la sensazione in conoscenza intellettuale, la quale s’imprime nello spirito per dirigersi verso la contemplazione di Dio. In tal modo la conoscenza sensoriale e intellettuale sollecitano la volontà, la sola potenza dell’anima capace di trasformare la conoscenza in azione.

 

I gesuiti contro il teatro

 

Da questa descrizione dei fondamenti teologici del teatro “pro Fide” dei gesuiti, basato sul mistero dell’Incarnazione e sulla concezione Trinitaria del divino, possiamo ora capire quanto la pratica scenica sia stata importante nell’educazione dei giovani e quanto sia stato pregnante e pervasivo il processo di spiritualizzazione proposto dal loro teatro. Riferendoci al dinamismo spirituale sul quale, come abbiamo visto, si fondano i processi percettivi del teatro sacro, possiamo anche rileggere in modo diverso la feroce opposizione che i gesuiti hanno fatto nei confronti della Commedia dell’Arte. Secondo lo sguardo sociologico del libro fondamentale di Ferdinando Taviani[15], il conflitto si basava sull’esclusione culturale dei comici che stavano conquistando tempi e spazi nella città. Alla luce dell’analisi antropologica che abbiamo qui proposto, ci sembra invece possibile formulare l’ipotesi che i gesuiti si siano battuti piuttosto contro il pericolo del linguaggio teatrale dei comici, consapevoli di quanto il teatro investisse quei sensi corporali, che invece di tendere verso la riconciliazione con Dio venivano sottratti dai comici alla Fede per dirigerli verso una vita secolarizza.  Infatti, come spiega il gesuita Bernardino Rossignoli nel suo Stimolo alle virtù (1592), bisogna:

… fuggire in tutti i modi le occasioni esteriori che ci porgono i sensi, contra la purità, a favore dell’intemperanza. Perciò restringendomi a questo, dico che questi spettacoli in ogni modo s’hanno da fuggire [...] Perché dove in altre occasioni entra la tentazione per un senso solo, or per questo, or per quello, nei teatri de’ spettacoli men che onesti, s’aprono tutte le porte dei sensi umani, per far larga strada al peccato [...] Onde in altre occorrenze se si imbratta l’occhio per l’immondizia dell’oggetto, forse netta resta l’orecchia, che per allora non sente parole che la macchino; [...] e se l’uno o l’altra insieme sono da bruttezze assaltati, forse il pensiero che non s’accetta rimane libero. Ma dai teatri, dove azioni incomposte e disoneste si rappresentano, esce fuori un diluvio d’immondizia, la quale basta a sommergere et affogare tutta la purità de’ sensi et del cuore e tutto l’uomo interiore et esteriore[16].

 

 

Il teatro è barocco

 

L’epoca barocca (1580-1680) è stata per lungo tempo considerata negativamente un periodo di “vuoto teoretico”, pieno di contrasti e di “futili trastulli”, come ha decretato draconianamente Benedetto Croce[17]. Solo recentemente, una cospicua messe di studi, dalle analisi di Anceschi e di Calcaterra a quelle di Getto e di Raimondi (per citare solo i più noti) ha invece messo in risalto la fertilità euristica e la ricchezza linguistica di questo periodo di transizione verso la nostra modernità.  In questa epoca di conflitti religiosi e di progressiva formazione degli stati nazionali, in cui si crea l’assolutismo monarchico e si avviano massicci processi di secolarizzazione, i quieti e limpidi paradigmi rinascimentali vengono sottoposti al dubbio e all’incertezza. Nel Barocco tutto si agita, anche se preso dall’esigenza di una stabilità, sotto le insegne inquiete dell’effimero, dell’instabile, del transitorio, della labilità dell’esistere, in un’impressionante simultaneità di manifestazioni contrastanti, ogni cosa muta ed è sottoposta a metamorfosi. Questa mutabilità continua produce anche una trasformazione profonda dei paradigmi conoscitivi, documentando così la crisi delle antiche credenze, che non sono ancora però sostituite da nuove certezze. Il Barocco è un fenomeno culturale che profonde le sue energie creative alla ricerca dell’anomalia, lontana dai territori del risaputo e del prevedibile.

Di questa epoca si ricordano principalmente le grandi feste effimere e i vistosi cerimoniali che invadono le città, improntate sull’apparenza e l’ostentazione, di cui si sottolinea la loro capacità di ridisegnare i luoghi e di adattarli a nuove forme. A fianco di queste elaborate ostentazioni, questa epoca crea però anche raffinati procedimenti di interiorizzazione. Come dice Carlo Calcaterra: “Il Barocco fu la nuova architettura dell’anima, cercante il suo volto fra senso e intelletto, tra istinto e ragione, tra immaginazione e logica, tra il carnale e lo spirituale, tra la natura e il soprannaturale”[18]. L’essere “entre-deux” diventa allora la cifra dell’inedito e della ricerca della novità che invade tutti i territori dell’arte. Prendendo l’esempio delle opere scultoree di Lorenzo Bernini, Mario Praz arriva a spiegare quanto l’arte barocca, ancorché impregnata di principi religiosi, sia riuscita a creare forme sorprendenti che hanno condotto a una vera e propria “secolarizzazione del trascendente”:     

“… anziché mortificare i sensi per concentrare tutta l’energia in una tensione esasperata dello spirito [...] Bernini, coi Gesuiti, voleva che ogni senso fosse portato all’estremo del suo acume per creare uno stato psicologico docile al comando divino. Si creò così una religione [...] più largamente umana, e un’arte che, attuando la secolarizzazione del trascendente, ne cinse di marmo la forma invisibile”[19].

Il teatro, come le feste effimere, si pongono sotto l’insegna della globalità e abbisognano del concorso di tutte le arti e delle tecniche più svariate: dalla regolamentazione idraulica dell’acqua all’uso sapiente del fuoco, dalla capacità di organizzare prodigiose carpenterie alla possibilità di sfruttare ingegni semoventi e “automi”; la logica è quella della convergenza di tutte le arti, senza gerarchia ma in perfetto concerto, per raggiungere l’efficacia rappresentativa. Concertare, deriva dal latino con-certare, ossia “lottare assieme” o “gareggiare assieme”, anche se nel linguaggio comune ha assunto il significato di “concordare” o “mettersi d’accordo”: nello spettacolo barocco concerto significa una deliberata e procurata convergenza di propensioni naturalmente divergenti, un concordato fra una iniziale disparità, che presuppone la pluralità e la molteplicità.  Lo spettacolo barocco assorbe e sviluppa queste sinestesie artistiche: l’incontro-scontro fra tutte le arti che tende all’evento globale, in cui si dipanano, s’intrecciano tutte le forme d’arte. Gilles Deleuze definisce questa tensione di ogni espressione artistica barocca di prolungarsi e realizzarsi in quella successiva per sorpassarla, la costituzione di una unità estensiva “piega secondo piega”[20] e lo stesso Praz sottolinea: 

“…quella tendenza alla sinestesia propria del barocco, sicché la poesia voleva conseguire effetti della musica, l’architettura era trattata come scultura, la scultura come pittura, e la pittura a sua volta voleva creare l’illusione dell’architettura, come il soffitto di S. Ignazio, mentre il razionalismo rinascimentale teneva rigorosamente separate le tre arti...”[21] 

Questa unità estensiva di tutte le arti è stata infatti all’origine di nuove forme d’arte come il melodramma, che partendo dall’imitazione della poesia e della metrica greca ha sostituito la vecchia polifonia con le nuove armonie vocali della Camerata dei Bardi, per infine approdare ai melodrammi di Monteverdi o a quelli dell’ex-allievo dei gesuiti e futuro papa Giulio Rospigliosi.

Anche nel teatro dei gesuiti la concertazione di tutte le arti promuove fusioni e confronti sorprendenti fra la danza e la declamazione, fra il canto e il ballo, fra la pittura e l’architettura, assegnando al teatro un ruolo di massima convergenza per creare sorpresa e magnificenza. Durante le feste della canonizzazione di S. Ignazio e S. Francesco Saverio (1622), l’intero Collegio Romano viene parato con quadri e immagini, mentre i professori pronunciano orazioni erudite in ogni classe e i giovani allievi danzano con l’effige dei santi al collo, cantando ditirambi inneggianti alla vita dei santi per accompagnare gli ospiti nella visita del collegio. Nel momento culminante della festa, il primo giorno, gli ospiti sono invitati dagli allievi ad assistere alla rappresentazione teatrale sulla vita e le imprese di S. Ignazio. Mentre si svolgeva la rappresentazione, il collegio viene completamente trasformato, suscitando al termine della rappresentazione la meraviglia e la sorpresa di tutti i convenuti alla festa. Al teatro era quindi demandato il compito di prolungarsi nella totale metamorfosi dello spazio e nella completa sospensione del tempo, creando così nel cuore della festa un evento che suscitava lo stupore della mutazione e la meraviglia dell’invenzione.

Il teatro, del resto, è uno dei più importanti fulcri artistici del Barocco, diventato un luogo di convergenza di competenze tecniche–scientifiche e di esperienze artistiche, nonché campo di disamine filosofiche, investendo la metafisica dell’esistenza con la grande metafora cosmica della vita come teatro del Theatrum mundi. Il teatro barocco è il luogo privilegiato di creazione linguistica e d’invenzione scenica: non solo in questo periodo si arriva a definire lo “spazio all’italiana” che dall’Italia si irradia verso tutta Europa, ma s’inventano gli ingegni e le macchine per dare alle azioni sceniche movimento e creare effetti stupefacenti. L’invenzione della scena mobile permette dei cambiamenti di scena sorprendenti e di abitare lo spazio in tutte le sue dimensioni, in cui le scene si evolvono fra “città, foreste e scene di mare” e le azioni si sviluppano fra “cielo, terra e abissi”, al fine di rendere ben visibili i conflitti fra il Bene e Male. Nelle tragedie gesuitiche, queste nuove possibilità tecniche permettono di visualizzare il loro fondamento trascendentale, tessendo lo svolgimento orizzontale delle azioni umane con la tensione verticale verso il Trascendente. Della scena romana dei gesuiti si ricordano le sorprendenti salite e discese al cielo dei santi e dei martiri e i prodigiosi effetti spettacolari, come le macchine acustiche e il leggendario passaggio sulla scena di un branco di elefanti virtuali proiettati dalla lanterna magica del padre Athanasius Kircher.

Tutti gli studiosi del Barocco sono concordi nel collocare la metafora al centro della produzione culturale di quel periodo, assunto tanto più valido per il teatro sacro in cui la metafora si fa corpo e si rende visibile. Anche Michel Foucault sosteneva che il Barocco “è il tempo in cui le metafore, le comparazioni e le allegorie definiscono lo spazio poetico del linguaggio”[22], proprio perché permettono di considerare e di rappresentare le metamorfosi dell’universo. La metafora implica un’idea visiva in cui si concentra un insieme di significati e il cui deciframento investe la riflessione. Non è un caso che si parli del Seicento come il “secolo dell’emblematica”. Gli emblemi sono una forma simbolica composta di un’immagine (corpo) e di un testo (anima), destinata ad insegnare in forma intuitiva una verità morale o spirituale[23]. L’unione di queste due parti deve raggiungere un’unità di senso che va a comporre una lingua interiore la quale non è fatta né d’immagini, né di parole. La messa in relazione fra le due parti deve generare un lampo di senso, una sorta d’illuminazione sintetica interiore. L’emblema è una significazione in atto e si propone come esercizio cognitivo per la relazione che stabilisce fra il visibile e l’intelligibile. Grandi promotori di questa forma simbolica, i gesuiti saranno i più importanti produttori di libri illustrati di emblemi sacri e, come vedremo in seguito, anche del loro uso drammaturgico nelle “tragedie cristiane” rappresentate nei loro collegi.

 

 

Il tempo di Cristo

 

La visione cristiana del tempo supera la concezione greca del tempo ciclico in favore di una concezione lineare che ripercorre tutta la storia della creazione, dal momento in cui Dio creò il cielo e la terra (Gen. 1,1) fino alla conclusione della storia, quando il processo di salvezza inaugurato da Cristo arriverà al suo momento culminante e definitivo “nella pienezza del tempo” (Ap. 21,1).

Come ricorda S. Paolo (Efes. 1,10): “Per l’economia della pienezza dei tempi, tutte le cose si ricapitolano (anakephalaiosasthai) in Cristo”.  La figura della ricapitolazione, che in un attimo riepiloga la storia della creazione in Cristo, è nella teologia cristiana centrale per raggiungere la “fine dei tempi” e per uscire dai suoi confini, per trovare infine il compimento nell’eternità di Dio. E’ la figura di Cristo che ricongiunge il tempo umano e l’eternità di Dio, consentendo all’uomo di partecipare a tale unione in modo vitale e concreto. Entrare nella “pienezza del tempo” per l’uomo cristiano, significa partecipare al mistero/evento di Cristo per redimere e santificare il tempo. Nel tempo presente il cristiano vive la tensione verso il futuro escatologico e capitalizza il suo tempo nell’attesa della “fine dei tempi”. Gli uomini, in Cristo e per Cristo, tornano a partecipare alla vera temporalità. Il tempo di Cristo è un tempo paradigmatico e si trova nel punto d’intersezione fra l’eternità del e per il Padre e il tempo umano. Cristo sintetizza tutti i tempi e li ricapitola ed è quindi fondamento, centro e fine, del tempo per ogni cristiano.

Il fondamento sacro delle “tragedie cristiane” dei gesuiti pone al centro l’economia della salvezza e configura le proprie drammaturgie per santificare il tempo e per far partecipare il cristiano al mistero/evento di Cristo: la successione delle azioni drammaturgiche devono intrecciare tempi e modi al fine di comporre, nella linearità del tempo cronologico del dramma, la breccia o lo scarto temporale che conduce il cristiano a percepire la “vera temporalità”. Ma quali sono le temporalità che le drammaturgie dei gesuiti intrecciano? Attraverso quale tipo di composizioni drammatiche e quali scelte drammaturgiche si arriva a creare quello scarto percettivo per indurre gli spettatori a proiettarsi nell’avvenire della salvezza?

Sin dall’antichità classica ci sono tre modi per indicare il tempo: chronos che denota lo scorrere lineare del tempo, kairòs il momento propizio e la buona occasione, mentre l’ayôn rappresenta l’eternità o il divino principio creatore, eterno, immoto e inesauribile. L’individuazione di questi tre tempi nella poliritmia delle drammaturgie gesuitiche, permette di cogliere le circostanze e le modalità dell’inscrizione drammaturgica della temporalità cristiana: dalla linearità cronologica della trama narrativa, all’inserimento del tempo cairologico, fino al raggiungimento della sospensione/eternizzazione del tempo dell’ayôn. In tal modo si può scorgere come e quando le drammaturgie delle “tragedie cristiane” gesuitiche ricapitolano in Cristo il tempo degli uomini.

 

Chronos, kairòs e ayôn

 

Come è noto, Aristotele indica che lo svolgimento dell’opera drammatica procede attraverso la “condotta dei personaggi in azione” e la stessa composizione del dramma è descritta come una successione di azioni. Nella terminologia dei gesuiti seicenteschi il dramma è definito Fabula e la trama compositio rerum, cioè il modo in cui la sequenza dei fatti è organizzata ed esposta e, come noi oggi la definiremmo, si realizza il montaggio delle vicende che devono essere rappresentate.

Le tragedie cristiane normalmente sono suddivise in cinque atti, i quali sono separati da quattro Intermezzi con il compito di anticipare o commentare le vicende rappresentate nei singoli atti del  dramma. Nella prima metà del Seicento, i canti del coro e le danze degli Intermezzi sono spesso inseriti negli atti e partecipano allo svolgimento dell’azione principale. La drammaturgia tende così a costituire un unicum narrativo. Nella seconda metà del secolo, con l’emergere dell’importanza della letteratura drammatica e la necessità di moderare gli effetti spettacolari nelle drammaturgie sacre, sulle scene gesuitiche si rappresentano invece due linee narrative parallele e autonome. Da una parte, quella della drammaturgia della tragedia, senza troppi cambi di scena e in cui si valorizza soprattutto la declamazione; mentre dall’altra, la trama sviluppata negli Intermezzi si fa appena allusiva al dramma principale con il solo compito di concentrare gli effetti spettacolari e di sollecitare il massimo della meraviglia. La tragedia cristiana ripulita dai suoi eccessi e tesa a dare risalto al valore letterario del dramma viene così inserita in una cornice a grande impatto spettacolare, in cui si concentrano invenzioni ed effetti di grande stupefazione. In tal modo il teatro si separa dallo spettacolo, mentre s’inaugura l’egemonia della letteratura drammatica nel teatro moderno.       

La drammaturgia delle tragedie cristiane doveva essere “composta con le sue parti, con le quali il negozio si prepari e si adombri nel primo Atto, si alteri e si inviluppi nel secondo e nel terzo, si spieghi e si risolva nel quinto” come è spiegato nell’argomento dell’Ignatio in Monserrato, rappresentato durante la sua canonizzazione nel 1622[24]. Il padre Alessandro Donati nella sua Ars Poetica[25] nella Fabula distingue quattro parti: Prologus, Episodium, Exodus, Choricum. La scelta di nominare Episodium tutta la parte centrale e più consistente del dramma, si giustifica dal fatto che solo in quegli atti centrali si possono inserire (e spesso abbondano) vicende che costituiscono aggiunte, amplificazioni o divagazioni, alla narrazione drammatica, le quali non possono trovare collocazione nel Prologus in cui si espone il dramma, né nell’Exodus in cui c’è la catastrofe o scioglimento dell’intreccio del dramma[26]. La tessitura drammatica si complica così di una sorta di contrappunto narrativo, le cui vicende entrano in risonanza o dissonanza con le vicende principali del dramma, sviluppando in tal modo una potenza figurativa. Con queste divagazioni figurali il dramma sviluppa una concezione “metaforica o simbolica” che contribuisce a definire e spesso sostanzia il vero senso del dramma. Lo stesso significato etimologico di episodio indica la sua sostanziale estraneità al filo o al senso della storia rappresentata; una letterale collocazione “extra–fabulam”, la quale implica la possibilità di arricchire e complicare con fatti o eventi esterni la vicenda principale della tragedia. In tal modo la linea narrativa del dramma tramuta e dilata lo spazio poetico e, soprattutto, crea nuove temporalità che irrompono nell’andamento cronologico del dramma. La linearità della cronologia sarà in tal modo perturbata da fatti ed eventi che introducono rallentamenti o accelerazioni e inducono cambi di ritmo.

Fin dalla letteratura greca, al kairòs viene attribuito il significato di “occasione” o “tempo debito” che si riesce a cogliere solo nell’istante in cui si manifesta. E’ l’ora critica, il momento decisivo e l’istante cruciale che comporta una rottura, un taglio praticato in maniera decisiva e tempestiva all’interno di un continuum temporale. Il kairòs indica sia l’agente della rottura che la parte tagliata, la crepa. E’ anche simmetrica composizione degli opposti in cui il processo raggiunge il suo compimento, la sua acme. Nella polisemia che il termine racchiude in sé, è il “tempo che resta” e che si situa tra il tempo e la sua fine. Kairòs e chronos sono intimamente connessi: Giorgio Agamben definisce il kairòs una parcella di chronos perché incastonate nell’anello dell’occasione, è il “tempo restante”. Come occasione si manifesta nella concreta esistenza di vita come ac–cadere improvviso che sconvolge gli equilibri esistenti.

Il kairòs rappresenta quindi la virtù di saper agire al momento opportuno, intervenendo in maniera efficace sugli eventi e nella drammaturgia gesuitica si esprime nel tempo della scelta che porterà alla conversione del santo, ovvero anche all’ostinazione del martire nell’affermare la sua fede. Il tempo cairologico è quindi strettamente connesso con la capacità decisionale e con l’agire umano, in cui vengono messe in gioco sia un sapere delle circostanze che quello di contesto. E’ una mescolanza degli elementi complessi del reale che ci permette di stare nelle situazioni della vita e di incontrare gli altri, la mancanza di kairòs infatti produce il fallimento delle relazioni, dell’insegnamento, della cura. In  questo senso possiamo parlare di “tempo debito”, in quanto si tratta di un tempo che trova il suo senso solo quando lo rapportiamo agli altri e alle situazioni, anzi esiste solo perché esistono le relazioni e le diverse circostanze della vita.

Mentre il tempo cairologico nasce e si sviluppa drammaturgicamente dall’intreccio delle relazioni e dalle interazioni che il personaggio elabora in un dato contesto fino al momento della scelta che crea nuovi equilibri, l’inscrizione del tempo dell’ayôn richiede un altro tipo di composizione drammatica che ha il suo nucleo nella composizione emblematica. In queste drammaturgie vengono inseriti degli episodi che, come abbiamo già detto, costituiscono tante dilatazioni o divagazioni, apparentemente incongrue rispetto l’azione principale, che vanno a costituire una sorta di contrappunto, dando forza e peculiarità all’intreccio barocco. Nella composizione drammatica s’inseriscono dei frammenti narrativi che esulano dalla lettera del testo e propongono dei trasferimenti semantici d’ordine metaforico: ogni frammento sparso nel corso della successione delle azioni va a comporre una linea narrativa che arriva a creare, nel momento della catastrofe, una realtà figurativa di tipo emblematico. L’emblema, dichiara il gesuita Daniello Bartoli, assomiglia a “l’arte dell’intarsiare”, in cui

“Tutto è magistero dell’ingegno, e della mano, adoprantisi, l’uno a discernere, l’altro ad unire diverse croste di legno, haventi un tal colorito, una tal vena, una tal macchia, e così lumeggiate e chiare, e così ombreggiate e fosche, che incastrandone l’una a lato dell’altra, ne provenga di tutt’esse organizzato e composto ciò che si volle” [27].

L’associazione dei diversi frammenti sparsi nella successione delle azioni che compone un’immagine emblematica, istituisce l’atto che si dissocia dall’azione principale e condensa in una figura il vero senso di tutto il dramma che è quello della sospensione/eternizzazione del tempo dell’ayôn, ovvero l’istante della ricapitolazione in Cristo della temporalità cristiana.

All’interno del concatenamento continuo di un insieme di gesti, di atti, di circostanze e di progetti, di orientazioni e di decisioni, che conducono verso un cambio di stato, s’insinua un frammento che cambia o rivela il cambiamento improvviso. Nel susseguirsi delle azioni, si apre uno squarcio, un’eventualità aperta, visibile e momentanea dell’azione: un atto. Mentre la catena delle azioni tracciano delle mutazioni che arrivano a compimento, l’atto partecipa dell’avvenimento come irruzione spontanea e incontrollata. L’atto appartiene a un corpo, preso in una rete di pressioni e d’interferenze, nella presenza di fatti concomitanti. Può così segnalare l’emergenza alla superficie di un’alterazione nello stato delle cose. Nel compimento dell’atto, il gesto afferma la sua parzialità per il fatto che non c’è altro prolungamento di senso al di là dell’affermazione dell’atto, ma una vera e propria rottura nel senso. L’atto corrisponde all’affermazione di qualche cosa che ha un suo proprio senso, perché è il superamento di sé stesso.        

Gli atti, i gesti e gli avvenimenti fanno parte di un continuo cambiamento, costituendo il movimento in divenire che si caratterizza con una serie d’istanti. L’insieme di questi istanti attivano il tempo-movimento in cui gli stessi istanti partecipano di un’attività ininterrotta. L’atto rompe la simultaneità di un divenire, la cui proprietà è di “schivare il presente”, come precisa Gilles Deleuze.  (Logique du sens, 1969) Quella simultaneità del divenire che sconvolge la temporalità continua e lineare delle azioni con una rottura che deriva dall’ayôn “pura forma del vuoto”, si presenta come

“Ayôn illimitato, un divenire che si divide all’infinito in passato e futuro, sempre schivando il presente [...] come istanza infinitamente divisibile in passato e futuro, negli effetti che risultano dai corpi, dalle loro azioni e dalle loro passioni. Solo il presente esiste nel tempo e raccoglie, riassorbe il passato e il futuro: ma solo il passato e il futuro insistono nel tempo, e dividono all’infinito ogni presente. Non tre dimensioni successive, ma due letture simultanee del tempo.” (p.13)[28].

L’atto frammento che si costituisce in avvenimento come immagine della situazione di un corpo con le sue relazioni e tensioni, assorbe nell’istante fulminante con l’ayôn il carattere transitorio dello stesso avvenimento che nella concezione figurativa cristiana, come precisa Erich Auerbach[29], “cerca ogni volta di trovargli un’interpretazione verticale”, cioè Dio, cioè l’eterno.

 

 

 

 

 

[1] L’incontro con Bruna Filippi si è svolto al Castello Pasquini di Castiglioncello il 22 gennaio 2017

[2] M. Bloch, Apologie pour l’histoire ou Métier de l’historien (1941-1942), Paris, Armand Colin, 1993, p. 96-97 (ed. it, Torino, Einaudi, 2009).

[3] Ibid. p. 119.

[4] G. Didi-Huberman, Devant le Temps, Paris, Edition de Minuit, 2000, p. 15-55; vedi anche J. Rancière, “Le concept d’anachronisme et vérité de l’historien”, L’inactuel, n.6, 1996. 

[5] F. Hartog, Régimes d’historicité. Présentisme et expérience du temps, Paris, Edition du Seuil, 2012. 

[6] M. Foucault, L’Archéologie du savoir, Paris, Gallimard, 1969 (ed. it Milano, Rizzoli, 1971).

[7] F. Cruciani, Comparazioni: la “tradition de la naissance”,  “Teatro e Storia”, 6, a. IV, n.1, aprile 1989, 3-17.

[8] F. De Dainville, La naissance de l’humanisme moderne, Paris, Beauchesne,1940, p. 186 (n. ed. Ginevra, Stlatkine, 2011).

[9] S. Tommaso, Summa Theologica, II, q. XILX, q. L, a.I; vedi anche la voce “virtù” di A. Solignac nel Dictionnaire de spiritualité, t. XVI, col. 485-506, Paris, Beauchesne, 1970; di A. Michel nel Dictionnaire de Théologie catholique, t. XV, col, 2739-2799; vedi anche Aristotele, Etica a Nicomaco, II, 1.  

[10] P. Bourdieu, Raisons pratiques. Sur la théorie de l’action, Paris, Seuil, 1994.  

[11] Sul concetto di persona rimane fondamentale il saggio di M. Mauss, una categoria dello spirito umano: la nozione di persona, quella di “io”, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965, 351-381, e il dibattito sul suo fondamento relazionale promosso da Problème de la personne (a cura di I. Mayerson), Paris,-La Haye, Mouton, 1973.

[12] Sulla storia del concetto di “persona”, vedi J.-C. Schmitt, “corps et âme” in Dictionnaire raisonné du Moyen Age (a cura di J. Le Goff e Jean-Claude Scmitt), Paris, Fayard, 1999, 230-245. ripreso in Le corps, les rêves, les rites, le temps. Essai d’anthropologie médiévalé, Paris, Gallimard, 2001 e il recente J. Baschet, Corps et âme. Une histoire de la personne au moyen âge, Paris, Flammarion, 2016. 

[13] E.-H. Weber, La personne humaine au XIII siècle, Paris, Vrin, 1991; A. Boureau, De vagues individus. La condition humaine dans la pensée scolastique, Paris, Belles Lettres, 2008.

[14] Per il termine imago e le sue determinazioni storiche, vedi: J.-C. Schmitt, Imago: de l’image à l’imaginaire, in L’image. Fonctions et usages dans l’Occident médiéval (a cura di J. Baschet e J.-C. Schmitt), Paris, Cahier du Léopard d’or, vol. 5, 1996, pp. 27-38; J.-C. Schmitt, Le corps des images, Paris, Gallimard, 2002; J. Wirth, La critique scolastique de la théorie thomiste de l’image. In Ceise de l’image religieuse (a cura di J. Wirh e D. Gamboni), Paris, MHS, 1999, p. 72-98; per l’uso delle concezioni dell’imago all’inizio dell’epoca moderna, vedi R. Dekoninck, Ad imaginem. Status, foncitons et usages de l’image dans la littérature spirituelle jésuite au XVII siècle, Ginevra, Droz, 2005.

[15] F. Taviani, La fascinazione del teatro, Roma, Bulzoni, 1970.

[16] Ibidem, p. 100.

[17] B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia (a cura di G. Galasso), Milano, Adelphi, 1993.

[18] C. Calcaterra, Il Parnaso in rivolta (a cura di E. Raimondi), Bologna, Il Mulino, 1961, p.122.

[19] M. Praz, Bellezza e bizzarria, Milano, Il Saggiatore, p. 53.

[20] G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Torino, Einaudi, 1990.

[21] M. Praz, Il giardino dei sensi. Studi sul manierismo e il barocco, Milano, Mondadori, 1975, p. 251.

[22] M. Foucault, Les mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966, p. 72.

[23] Gli studi sull’emblematica sono numerosi, ricordiamo solamente che la loro riscoperta è dovuta nel 1937, raccolta ancora fondamentale è M. Praz, Studies in seventh-century imagery, second edition considerabely increasead. Offset reprint of the edition publihed in 1964, Roma, Edizioni di storia, 1975.    

[24] B. Filippi, Il teatro degli argomenti. Gli scenari seicenteschi del teatro gesuitico romano, Roma, Istitutum Historicum S. I., 2001, p. 95.

[25] Ars Poetica Alexandri Donati Senensis e Societate Iesu Libri tres, Roma, typis Guilielmi Facciotti, 1619.

[26] Ibidem, p. 320-322.

[27] D. Bartoli, De’ Simboli trasportati al Morale, Roma, Ignatio de’ Lazari, p. 6.

[28] Gilles Deleuze, Logique du sens, Paris, Edition de Minuit, 1969, p. 13.

[29] E. Auerbach, Figure, Paris, Macula, 2003, p. 70.

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