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Piergiorgio Giacchè

(L'incontro si è svolto al castello Pasquini il 21/1/2017)

Il tempo è antropologico

1. Ai miei tempi…

 

Ho incominciato a confondere antropologia e teatro grazie a dei teatranti e non a degli antropologi. Prima di aver ascoltato i loro discorsi e incontrato i loro percorsi “antropologici” frequentavo il teatro e l’antropologia come due diversi ambiti e con divisi interessi. In verità non sapevo ancora dividere il terreno dell’impegno da quello del divertimento, poiché “ai miei tempi” lo studio e lo svago potevano e addirittura dovevano confondersi: chi nasceva studente, cresceva studente e sarebbe morto studente, proprio come succede ai burattini… Ma qui finisce il paragone con Pinocchio perché non è che io – da studente e poi studioso di antropologia – mi sia avvicinato al teatro, ma è stato il teatro ad andare verso e poi dentro l’antropologia, rimanendone per così dire (e per qualche tempo) “incastrato”.

L’Antropologia Teatrale è stata una scoperta e/o un’invenzione di Eugenio Barba, e accidenti al suo libro “galeotto”[1], in ragione e per attrazione del quale sono rimasto rinchiuso due mesi in un collegio di Volterra, proprio dirimpetto al carcere di massima sicurezza di quella città… che poi sarebbe stato anche lui invaso dal teatro… E quella del teatro in carcere, come si sa, non è un’altra storia, ma un’altra fase della lunga stagione del teatro alla ricerca della “sua” antropologia.

Tutta “sua” in modo esclusivo e perfino conclusivo, perché mentre l’antropologia culturale si apriva sempre più alla ricerca di ogni alterità, il teatro di ricerca si chiudeva nella sua autonomia proprio a salvaguardia della “sua” alterità – e questa è una delle prime cose che ho subito ancor prima di averle capite. Dunque ero capitato all’ISTA[2], cioè in una scuola internazionale di antropologia teatrale che voleva fondare e sondare un’antropologia dell’attore distinta e diversa dall’antropologia di tutti e forse di troppi tipi di umanità; diversa e distinta almeno quanto lo è l’arte dalla scienza; ero cioè capitato nel laboratorio di un’arte scenica che cerca di farsi scienza di se stessa, magari aperta a tutti i contributi di altre scienze ma non alle invasioni (o peggio alle sottomissioni) di campo da parte di altre discipline che sempre mettono il Testo del teatro nel Contesto della Società e della Cultura “di appartenenza”.

L’attore come professione e il teatro come proposizione erano oggetti e soggetti di tutte le discipline umane e sociali, ma l’attore come indigeno residente in un teatro autonomo e isolato (e addirittura galleggiante) dalla società di riferimento (ma non più di appartenenza) generava un’Antropologia Teatrale per così dire “deviante” dall’antropologia sociale e culturale di mia conoscenza e formazione[3]. Così, molti miei docenti e colleghi mi sconsigliavano di frequentare e in qualche modo validare questa posizione o presunzione, mentre al contrario io mi ci sono immerso (magari da incosciente e certamente da incompetente) proprio nel nome e nel senso di una Antropologia che non aveva limiti, non temeva sfide, non rifiutava nessun “campo” entro il quale fare “ricerca”.

 Tanto più in quei tempi in cui l’antropologia classica era passata alla storia, mentre la geografia delle società tradizionali e delle culture esotiche si stava esaurendo, a fronte di una crescente varietà di subculture disobbedienti e di gruppi minoritari che erano diventati gli oggetti e i soggetti di un’antropologia dei mondi contemporanei[4] tutta da esplorare e infine da costruire. Tanto più in quei tempi, in cui l’antropologia – corroborante e contaminante tutte le altre scienze umane e sociali – sembrava “andar di moda” e in cui il “culturale” stava rivestendo e poi sostituendo il “politico” in tutti gli ambiti della vita sociale.[5]

“La Società dei consumi” e “La Società dello spettacolo” non erano più titoli di libri di sociologi profeti, ma realtà consolidate, invasive e pervasive, che stavano orientando tutti verso la finzione e dentro la mondializzazione: oggi si direbbe verso la virtualità e dentro la globalizzazione, ma tutta la mutazione culturale che poi si sarebbe insediata era comunque già in nuce fin da quei tempi, ovvero dal “primo atto” del dramma antropologico attuale.

E cos’altro era o poteva essere il teatro antropologico con la sua antropologia teatrale, se non una ulteriore e legittima “finzione” di un terreno autodefinito e autoemarginato su cui si poteva e anzi si doveva fare una nuova ricerca antropologica? Per di più si trattava di una ‘finzione dell’arte della finzione’, parto dell’unico ambiente culturale autorizzato a chiudersi e concludersi come “campo” alias “teatro”. Il luogo e il modo del Teatro era ed è ancora un microcosmo, composto di Scena dell’attore e Sala dello spettatore, dove cioè si specchiano una azione “privata” e una visione “pubblica”, entrambe “altre” rispetto alla vita sociale e dunque entrambe “finte”…

Dentro quel “campo del teatro” la ricerca antropologica non era impossibile ed era appetibile, tenendo però conto della difficoltà di dover svilupparsi “in parallelo” e anche “in subalternità” con la ricerca teatral-antropologica degli artisti. La deriva e la curiosità “antropologica” del teatro era del resto incominciata prima che Eugenio Barba la mettesse in ordine e per iscritto: prima di lui, per quasi tutto un secolo segnato dalla “tradizione dell’avanguardia”, aveva dato vita ai viaggi e alle teorie e alle pratiche di tutti i teatri maggiori (e di infiniti teatri minori) impegnati a sviluppare la propria scienza e la nuova coscienza di un teatro come differenza[6] – di un teatro alla ricerca e conquista di un proprio tempo e spazio, di un teatro che non si proponeva più come alternativo al sociale ma come altro culturale… come “ai miei tempi” volevasi fare e dimostrare.

Il Teatro di ricerca era paradossalmente più in linea con i tempi di quanto lo fosse  la ricerca antropologica italiana, che si attardava (e ancora oggi spesso si intestarda) sui residui del folklore. E allora, invece di ripiegarsi nella storia delle tradizioni popolari, ho deciso di spiare e studiare quei molti piccoli e poveri e nuovi gruppi teatrali che, sulla scia dei grandi maestri del teatro contemporaneo, esploravano il mondo e saccheggiavano il modo dei “teatri degli altri” (per lo più ritornando in Asia e riscoprendo l’America latina) e - inventandosi come indigeni della cultura teatrale e ingegnandosi come improvvisati antropologi di se stessi - cercavano riparo e ricchezza nel Rito, non più antenato sacro ma modello poetico: il Rito come origine e utopia di un teatro che si definiva “antropologico”… Con tutta la novità rivoluzionaria e la spinta innovatrice che questo “aggettivo” – oggi tornato in filosofia – aveva nella storia politica o nella moda culturale dei “miei tempi”…

 

2. Il tempo del rito

 

Dall’altra parte, l’Antropologia sia era pur sempre e da sempre occupata del Teatro: non solo per l’uso o l’abuso del “teatro come metafora” ma anche riconoscendo gradualmente il teatro come fenomeno sociale e artistico. Non si faceva ancora ricerca sullo specifico dell’arte scenica (anche la storiografia su questo punto era allora in ritardo), ma si era aperta una relazione con il teatro (con i suoi ruoli e modi e linguaggi) che si può far cominciare dalla sociologia di Goffman fino ad arrivare all’antropologia di Geertz[7], per fare i due esempi maggiori  di una fertile coniugazione fra gli studi sociali e la drammaturgia teatrale: una vera e propria tendenza combinatoria fra vita sociale e drammaturgia teatrale[8], in virtù della quale la realtà del teatro e la questione della finzione hanno guadagnato spessore teorico e perfino spazio nella ricerca empirica e nella riflessione teorica degli antropologi.

Forse però, fra gli antropologi, il solo Victor Turner ha fatto davvero del Teatro un luogo e modo di indispensabile riferimento e comparazione: prima adoperandolo come mezzo e poi inseguendolo come fine di una approfondita riflessione sulla “performance” che ambiva e magari ancora ambisce ad essere “definitoria” se non definitiva.

In effetti, dal suo percorso sul rapporto tra Rito e Teatro (che non è il caso di ricapitolare in questa sede) si traggono non poche definizioni utili, anzi un intero dizionario di concetti e di strumenti che sono ormai repertorio di chi studia teatro. Dalla sua Teoria del Dramma Sociale e dalla sua rivisitazione dello schema del Processo Rituale sono derivate ‘parole chiave’ importanti che davvero aprono le porte tra il Rito e il Teatro[9]. Il fatto è che il “viaggio” di Turner ha avuto due distinte fasi e due diverse direzioni: prima cioè di risalire “Dal Rito al Teatro” va considerata la sua discesa sul campo delle società tradizionali, che ha avuto il Teatro come punto di partenza e fonte di alimentazione.

Un primitivo viaggio dal Teatro al Rito – implicito ma non inconfessato dallo stesso antropologo, figlio di un’attrice e conoscitore dell’arte e della letteratura drammatica – è stato infatti quello che ha regalato la prima intuizione ma anche la costante ispirazione su cui si regge la sua Teoria del Dramma sociale, che ridefinisce e interpreta il conflitto sociale nelle società tradizionali comparandolo ai quattro Atti canonici della letteratura drammatica occidentale.[10]

E l’ispirazione o l’aspirazione alla teatralità prosegue in Turner per tutto il viaggio di ritorno o risalita “Dal Rito al Teatro”, quando si tratta di analizzare le fasi e i comportamenti del Processo rituale: in trasparenza - per non dire in evidenza - continua un parallelismo fra il rituale e il teatrale, se è vero che i concetti del Liminare, della Sacralità, della Communitas, del Flusso sono facilmente e utilmente esportabili dal piano del Rito al palcoscenico del Teatro. Soprattutto nei tempi in cui il teatro antropologico cercava di proporsi come un nuovo rituale, non era difficile rintracciare assonanze e/o somiglianze con lo spazio extrasociale e il tempo extraquotidiano del Liminare, con il gioco sacro di decostruzione e ricostruzione simbolica, con la modalità e la felicità delle relazioni di una Communitas di attori, con la modalità del Flusso in cui l’azione e la coscienza sono fuse nello stesso atto e attimo e corpo…

Così, anche per questa via e per il contributo dell’antropologo Turner,  il Rito diventava un Mito per tanti attori e teatri che cercavano una alterità che facesse rima con l’autenticità, in tempi in cui il Teatro – per dirla “alla” Grotowski – era l’unico modo o forse l’ultimo mondo che sfugge a quella finzione e prigione dei ruoli sociali, descritta nella “Vita quotidiana come rappresentazione” di Erwin Goffman.

Certo il Rito del Teatro non può davvero evadere dalla vita sociale, ma da sempre e per sempre vi si aggiunge sia come finzione artistica che come funzione pubblica; certo, la Scena e la sua Arte non può chiamarsi fuori dallo Spazio sociale malgrado sia confinata “a parte” ma anche convenzionata “come parte”. E tuttavia il Rito può aiutare il Teatro a star fuori almeno dal Tempo storico: può sottolineare il suo anacronismo non più come ritardo ma come estraneità ed elevazione, può perfino surrogare la verticalità e l’alterità del Sacro con una laica e ludica sospensione dal tempo cronologico e dalla dittatura della sua corrente.

Paradossalmente, proprio l’usanza oggi diffusa di avvertire gli spettatori della durata di ciascun spettacolo, è il segno che il teatro va vissuto come un “tempo perso”, diverso e distinto dalla totalità di un “tempo libero” da dedicare al Dovere del Consumo Quotidiano (tra parentesi conviene ricordare che il tempo del lavoro non conta e non si conta più nell’attuale cultura e dittatura del Mercato)[11]. In questo, il Tempo del teatro è davvero erede di quello del Rito: fa eccezione anche quando non dà emozione, è festivo nel senso di una liminarità per convenzione anche senza convinzione, si propone e si consuma come un gioco o uno scherzo che sfugge al tempo contrapponendosi al comandamento del tempus fugit… 

Il suo tempo – del rito ma anche del teatro – si può dire che appartenga più alla Natura che alla Cultura, se è vero che non si fa misurare: si va a teatro per vedere un Avvento ovvero un Evento, per dirlo con una parola poi rubata al teatro ed esportata in tutto il mercato delle occasioni che si vogliono etichettare come straordinarie… A teatro l’evento non è però una confezione ma una conseguenza del suo linguaggio delle azioni, basato sulla successione di apparizioni e sparizioni, dunque sulla somma di tanti piccoli eventi che si succedono, fino a produrre una dimensione temporale dove l’istante e l’eterno sono confusi insieme.  In sintesi e in fretta si può dire che Rito e Teatro inseguono, ognuno a modo e nel mondo suo, il tempo della transe o meglio una transe del tempo; e la inseguono anche quando non ci arrivano, anche le infinite volte in cui il teatro non si accende e il rito non ascende.

E non può essere altrimenti, se è vero che l’alterità del rito come anche la differenza del teatro non stanno nel loro “successo” ma nel loro “processo”, che  impedisce al rito e al teatro di oggettualizzarsi e confezionarsi come “prodotto”, a dispetto di quanti cercano di fermarlo e documentarlo anziché di parteciparlo e/o fruirlo nel modo della relazione e nel tempo dell’evento.

Lo spazio liminare – che sia quello del cerchio sacro del rito o della scena profana del teatro – è la condizione o solo la convenzione che permette il “passaggio” del tempo che è l’unica dimensione realmente interiorizzata dall’uomo, anche lui “passante” nel tempo prima e più che “abitante” dello spazio[12].

Il tempo è antropologico, lo spazio no.

 

3. Lo spazio del tempo

 

Il tempo e lo spazio sono due coordinate determinanti che si danno per complementari e che sono invece supplementari: sovrapponendole senza mai confonderle, ogni cultura e società, ogni epoca e attività si dà una sua “spaziotemporalità” che la determina, anche nel senso che la confina. L’uomo ha bisogno di domare queste entità incommensurabili“ per portarle appunto “a misura d’uomo”, che poi vuol dire anche “a misura di mondo”…

Equiparate e combinate tra loro, le coordinate spaziali e temporali fanno da cornice a ciascun mondo e modo umano, ma all’interno del quadro della vita umana sono diversamente sentite e adoperate… Lo Spazio e il Tempo hanno cioè un trattamento diverso. Per farla breve e solo per esempio, ci sono molti modi di dire “proverbiali” sul Tempo e non altrettanti sullo Spazio, per via che il primo si avverte come “interno” mentre l’altro resta infine sempre “esterno”.  E il combattimento dentro il tempo è decisamente diverso dalla conquista esterna dello spazio: l’uno – il tempo – si avverte limitato e lo si vorrebbe eterno mentre l’altro – lo spazio – lo si vede sconfinato e lo si vorrebbe ritagliare e quindi possedere. La loro differenza sta infine nel cercare “alloggio” nello spazio e “vitto” nel tempo: uno strano cibo che si consuma mentre ci consuma, in un abbraccio così stretto e misterioso da essere amato e temuto contemporaneamente. Ecco perché i proverbi sul tempo si raddoppiano e si azzerano, quando si consiglia a “chi ha tempo di non aspettare tempo” e però ci si rassicura perché infine “il tempo è galantuomo”; quando cioè ci si divide fra l’essere attivi e cogliere l’attimo fuggente ma insieme anche di abbandonarsi passivi al tempo che passa e lenisce ogni dolore.

La questione che fa la differenza del Tempo è ovviamente la morte, che è – per tutti e per ciascuno – la fine del tempo; lo spazio invece non solo non ha fine in sé e per sé (malgrado le sonde e i calcoli che inseguono i limiti dell’universo) ma, diventando immaginario e necessario “altro mondo”, talvolta si prolunga e ci trascende addirittura salvandoci dalla “fine del tempo”.  Si dirà che non è più questa “la religione del nostro tempo”, ma infine anche l’arte e la poesia non fanno che mescolare e confondere i due elementi che trascolorano l’uno nell’altro. Ma – anche per il poeta – è pur sempre lo spazio “Infinito” a garantire il sogno o il bisogno dell’eternità del tempo – se ci si ricorda della famosa siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude… e mirando interminati spazi  e sovrumani silenzi…mi sovvien l’Eterno. E le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei…

Anche passando dalla poesia alla prosa quotidiana, è pur sempre l’imprendibile Spazio che si traduce nel Tempo che è poi quello che “fa presa” su di noi; e quindi, dall’esterno  del panorama tutti si torna all’interno del pensiero (che annega, dice il poeta), come se lo spazio fosse Natura e il tempo invece Cultura… Ed è proprio così se ci pare, visto che così ci appare...

Forse si può anche dire, più semplicemente e senza alludere alla religione e disturbare la poesia, che il tempo è Storia e lo spazio Geografia… che cioè siamo “fatti” (in ogni senso) di tempo e siamo “mossi” (in ogni modo) nello spazio… Ma questo non è poi vero dappertutto, e comunque non “a teatro”.

A teatro, dove si ricovera o si imita la liminarità del rito, ci si inventa e si diventa viaggiatori del tempo (come sostiene Eugenio Barba), poiché, se ogni teatro si edifica o si accampa in precisi confini, i suoi avventori e i suoi attori abitano e animano uno “spazio del tempo”: infatti, sia nel sotto vuoto dello spazio scenico che nel fuori luogo della platea, ogni movimento e mutamento avviene – o vorrebbe avvenire – nel tempo insieme istantaneo ed eterno, nel tempo totale e puntuale dell’Aiòn (specificherebbe Carmelo Bene) dove l’atto sfugge nell’attimo e con esso si confonde…

Non c’è altro che il tempo a teatro, com’è poi nella musica. Non c’è che l’invenzione e la dominazione di un ritmo tutto interno per non dire intimo, anche quando risuona all’esterno e pare diffondersi nello spazio, mentre invece si muove lungo un filo temporale che conduce l’azione e produce la visione: ecco perché si dice (ed è stavolta Grotowski che lo dice) che il teatro non è né in scena né in platea, ma nel “tempo” della relazione fra attori e spettatori - viaggiatori o giocatori di uno stesso passatempo - sia pure con intenzioni e attenzioni divise, con ruoli e con modi diversi.

“Non è vero, ma ci credo”. Credo che stia in questa unidimensionalità temporale la convinzione di vertice e insieme la convenzione di base su cui il piccolo mondo e modo del teatro mantiene un suo senso o non-senso. Credo che sia infine il suo Senso ovvero il suo Tempo a contare più di tutte le attribuzioni di funzione e riconoscimenti di valore che lo giustificano: a teatro si può agire e fruire il Tempo come fosse uno Spazio, capovolgendo per gioco e per poco la ordinaria gerarchia fra Natura e Cultura, fra spazio della realtà e tempo dell’arte.

Dopo ogni viaggio nel tempo teatrale, si ritorna tutti, spettatori ed attori, nello spazio sociale, e solo allora e soltanto lì si valuta e si critica lo spettacolo appena visto e vissuto: riflessioni tutte vere e fondate e necessarie, ma si fanno dal ‘dopo’ ovvero da ‘fuori’ del Tempo del Teatro…

 

4. Tempi moderni

 

Ma torniamo ai massimi sistemi, poiché oltre il tempo teatrale e lo spazio sociale c’è la supposta eternità del tempo cronologico e l’immaginata immensità dello spazio astronomico, che sono le dimensioni e le definizioni prime e ultime del Tempo e dello Spazio che conosciamo, o crediamo di conoscere. 

Ebbene, con il passare del tempo e il conquistare dello spazio, anche il vasto e vecchio theatrum mundi è cambiato, forse più inspiegabilmente e gratuitamente di quanto si crede e si vuole. Per esempio, “globalizzando” o “mondializzando” uno Spazio che sembra diventato grande ma che invece – diventando Tutto e Nostro – ha perso l’immensità e l’alterità che ci sfuggiva e ci dominava e che infine “ci trascendeva”, sfumando nell’Altro Mondo ovvero nell’Alto dei Cieli di religiosa memoria… Per esempio, mettendo in discussione e perfino minacciando la misurazione di quel  Tempo o Cronos che scandisce la vita dell’uomo e racconta la storia del mondo.

E’ un dato di oggi quello di una “misura” del tempo che – alla luce delle ultime scoperte della fisica – risulta sbagliata, se è vero che “il tempo passa più lentamente al mare e più velocemente in montagna, e nei buchi neri si ferma…”[13]; è invece un fatto di ieri e di sempre il dubbio sulla stessa esistenza del tempo, visto che la sua scansione in Passato Presente Futuro – stando alla storia della filosofia – è variamente stata valutata nella sua importanza e perfino negata nella sua sostanza. E non c’è bisogno di aggiornamenti, giacché dal tempo Aristotele si discute sull’esistenza o meno del tempo, passando dagli Stoici per i quali solo la realtà presente esiste, agli Epicurei che raccomandano di liberarsi del futuro, per finire con gli Scettici che concludono che il passato non è più e il futuro non è ancora e il presente nella sua durata è assolutamente impercettibile… A dimostrazione – se ce ne fosse bisogno – che il tempo è talmente antropologico che l’uomo che lo inventa a sua misura può anche farlo sparire…

E proprio questa sparizione sembra stia avvenendo e imperando nella attuale Società del Mercato e dello Spettacolo, addirittura invidiando e ricopiando il tempo e lo spazio del teatro: la realtà attuale si finge cioè – nella mentalità corrente – come uno spazio tessuto da infiniti non-luoghi e un tempo fatto di una successione ingannevole di istanti.

Siamo arrivati a una “mutazione antropologica” di cui sentiamo insieme orgogliosi e avviliti[14]: tutto sembra essersi svolto secondo i desideri del consumo e le speranze del progresso, che ha però esaurito le sue “incessanti trasformazioni” ed è arrivato alla stazione di un mondo e modo “mutato” (participio passato di un cambiamento che non pare poter proseguire). In sintesi, quella che sembra davvero essere accaduta è la definitiva realizzazione e stagnazione di quella “società dello spettacolo” di cui profetizzava Guy Debord[15], prima di debordare anche lui…

La mutazione di una cultura e di una società passa sempre per una ridefinizione – e stavolta “rivoluzione” – delle coordinate del Tempo e dello Spazio: trascurando tutto il resto e limitandoci al cambio di queste coordinate, ci si accorge facilmente che si sono per così dire invertite le loro figurazioni e/o utilizzazioni.  Lo Spazio, che prima si individuava nella infinita punteggiatura di mille “luoghi antropologici”[16], è diventato una rete fittamente e definitivamente tessuta: se cioè ieri ce lo si figurava come un’area piena di “punti” o centri, oggi lo si disegna come un fascio ininterrotto e intricato di “linee” periferiche; parallelamente, il Tempo che si vedeva e voleva come una linea possibilmente infinita, oggi si concentra e si consuma in una serie di punti, ovvero di “eventi” che sono esplosioni ma anche implosioni di quell’antico e tramontato tempo cronologico che perfino gli storici fanno fatica a illustrare e inquadrare…

I successivi punti del tempo attuale, non fanno più storia, non si collegano mai e non raccontano nulla. Per dirla con una battuta, il Cronos è morto: dalla vita sociale è passato a “miglior vita” concentrandosi tutto nel Presente.

Ma forse non è tutto vero o non proprio esatto: il presente dilatato in cui si dice che stiamo vivendo[17], non è detto che si sia ingrassato mangiandosi il passato e il futuro, perché a vederlo e a viverlo sembra invece dimagrito e diminuito e infine atomizzato, per potersi diffondere nel “mercato globale delle occasioni e delle opportunità”. Non è dilatato ma reso tascabile e portatile quel presente che ci anima e ci guida negli acquisti e nei progetti: il carpe diem – sottolinea e conclude Baumann[18]- ha fatto fuori il memento mori, e – aggiungiamo noi – una volta finita la morte, non c’è davvero più bisogno di una misura che non sia – letteralmente – una unità di misura… Una unità per volta, una per ciascun atto e ciascun attore sociale…

 

5. Teatri postmoderni

 

Fuori o dopo teatro, tornando in società, possiamo ancora usare e abusare di queste parole, perché infine  Atto, sia pure commerciale, e Attore, sia pure sociale, non sono forzature per far tornare i conti a un discorso. Sempre più mi convinco che siano invece utili terminali per chiudere un percorso.

A riguardarla infatti da qui – dal Tempo Presente e dallo Spazio Globale – la “metafora del teatro” sembra essere tornata indietro come un boomerang, anche se non proprio al punto di partenza e non certo per celebrare una vittoria. Può parere che il teatro abbia vinto imponendo il suo tempo fatto di eventi e il suo spazio tessuto di relazioni, ma in realtà è lo Spettacolo che ha trionfato sia sul Mondo che sul Teatro, riducendo quest’ultimo a infima, trascurabile vittima dell’attuale “mutazione antropologica”.

O meglio, sarebbe andata così, se il teatrale come modo non avesse un suo nodo “teatrico” più intimo eppure più evidente: non il suo Tempo o il suo Spazio ma più semplicemente il Corpo che li incarna e li riassume, pardon li sussume…  Dice Claudio Morganti, e perfino lo scrive: "Qui e ora" non è questione spaziale né temporale. L'attore sceglie improvvisamente come dire ciò che deve dire: "all'impronta", al momento, annullando il tempo di pre-occupazione.[19]

Persino lo spettatore, a ogni spettacolo che vede, si accorge della centralità ovvero della Causa dell’attore, ma non lo vuole ammettere per paura di perdersi l’Effetto dello spettacolo: eppure è evidente che l’Attore viene prima e dopo e soprattutto durante, nel senso e nel modo di un Corpo che nel teatro, nella sua storia passata e presente e futura, farà sempre Testo.

Ogni attore di teatro è lui stesso lo spazio e il tempo… Potremmo dire che proprio questo suo agire e fingere in sé stesso lo spazio e il tempo lo rende – davanti al Pubblico – un paradossale e unico “rappresentante”, e insieme ultimo “educatore” possibile nella nuova insediata e “mutata” società e cultura.

Non ci si può difendere dalla mutazione ma si può non subire se ci si sente “attori”, certo sottomessi ma protagonisti, certo ultimi e umili ma anche maestri ovvero padroni di sé.

 

*

Un oscuro emigrante - Abubakar - appena arrivato in Italia, ha rilasciato in un diario collettivo un detto somalo in cui il tempo è antropologico in senso pieno e in modo definitivo, quando l’uomo conquista la sapienza e la coscienza di “essere tempo”:

IL TEMPO E’ LA SOSTANZA DI CUI SONO FATTO, IL TEMPO E’ UN FIUME CHE TRAVOLGE, CHE MI TRAVOLGE, MA IO SONO IL FIUME.

 

 

 

 

 

 

[1] E. Barba, La corsa dei contrari. Antropologia teatrale, Feltrinelli ed., Milano, 1981.

[2] L’I.S.T.A., International School of Theatre Anthropology, è un’accademia fondata e diretta da Eugenio Barba che ha cominciato la sua attività nel 1980 a Bonn (Germania) e ha tenuto e continua a tenere “sessioni di lavoro e incontro” in molte parti del mondo; la seconda sessione – la prima a cui ho preso parte – si è tenuta a Volterra dal 5 agosto al 7 ottobre del 1981.

[3] Per le teorie antropologiche e le proposte pratico-poetiche di Eugenio Barba occorre riferirsi almeno a due suoi “primi” libri: Al di là delle isole galleggianti, Ubulibri ed., Milano, 1985 e La canoa di carta. Trattato di Antropologia Teatrale, Il Mulino ed., Bologna, 1993.

[4] “Antropologia dei mondi contemporanei” è una definizione di Marc Augè, una delle più recenti tra le molte definizioni dell’antropologia culturale delle “società complesse”.

[5] Una delle variazioni o “rivoluzioni” che caratterizzarono il ’68 e gli anni seguenti, è spesso ignorata o sottovalutata dalle letture e testimonianze tutte e troppo “politiche” di un periodo e di un movimento invece caratterizzato dalla prevalenza e predominanza della Cultura: ogni momento di presa di coscienza, contestazione e proposizione aveva un linguaggio e degli obiettivi eminentemente culturali.

[6] Vedi, fra gli altri e prima dei molti altri interventi successivi, il libro di Antonio Attisani, Il teatro come differenza, Feltrinelli ed., Milano, 1978.

[7] La lunga via di studi e scritti sociologici e antropologici che hanno relazione con il teatro non si è certo conclusa, ma si può far cominciare dalla Vita quotidiana come rappresentazione di Erwin Goffmann (edito in Italia nel 1969) e far arrivare almeno fino all’Antropologia interpretativa di Clifford Geertz (edito in Italia nel 1988).

[8] Il primo e migliore saggio sulla teoria combinatoria fra disciplina teatrale e scienza sociale è l’indimenticabile Ai confini del teatro e della sociologia di Claudio Meldolesi, in “Teatro e Storia”, n. 1, anno I, ottobre 1986, pp. 77 – 151.

[9] Si rinvia il lettore ad almeno due libri di Victor Turner: Dal Rito al Teatro  e Antropologia della performance, entrambi editi da Il Mulino, Bologna, rispettivamente nel 1986 e nel 1993.

[10] Non si tratta in questa sede di verificare la correttezza di questa comparazione, ma solo sottolineare come il rapporto tra Rito e Teatro evade dalla Storia del Teatro ed entra in Antropologia culturale solo quando si passa dal passato al presente, dall’interpretazione storica del Rito come antenato del Teatro alla ricerca empirica di un osservatore partecipante che guarda il “teatro del rito” così come viene eseguito dagli attori sociali delle culture “altre”. La “metafora del teatro” cessa e inizia un modo teatrale di guardare e studiare l’altro; e occorre aggiungere che “guardare l’altro sub specie theatri” è inevitabile e non etnocentrico, visto che la relazione tra spettatore e attore è stretta parente di quella dell’osservazione partecipante.

[11] Non si affigge in nessun altro luogo di svago l’orario che si impegna o che si perde: solo a teatro si dà questa informazione e ancora solo a teatro  - e nemmeno più in chiesa – ci si educa e allena a stare in sospensione e in prigione almeno fino al termine del primo atto… Più che un fatto di educazione è in effetti una condizione sine qua non il teatro non si dà e non si riceve, nel bene o nel male che vada, nel piacere o nella noia che ci toccherà in sorte come spettatori…

[12] “Siate passanti…” è la frase rubata dal vangelo apocrifo di Tommaso e più volte citata da Jerzy Grotowski al tempo della sua ricerca sul Performer.

 

[13] Vedi: C. Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi ed., Milano, 2014.

[14] Vedi: P. Giacchè, La mutazione antropologica in cui viviamo, “Lo straniero”, n. 189, marzo 2016.

[15] Vedi: G. Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, Firenze, 1979 (pubblicato in Francia nel 1967 presso le edizioni Buchet/Chastel e poi nel 1971 da Champ Libre). 

[16] La definizione di “luogo antropologico” come identitario, storico, relazionale, è in M. Augè, Non Luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèutera ed., Milano, 1993.

[17] Una prima rilevazione e definizione del “presente dilatato” è in C. Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani ed., Milano, 1981.

[18] Zygmunt Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, ed. Erikson, Gardolo (TN), 2007.

[19] Vedi: C. Morganti, La grazia non pensa. Discorsi attorno al teatro, (A, Petrini curatore) Cue ed., Bologna, 2018.

Floren
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