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Patrizio Esposito

Piccolo combattimento[1]

​

 

 

Il messaggio di Fabio Masi mi avverte: un errore tecnico ha reso inutilizzabili le registrazioni audio dei due giorni di seminario. Per imprevisti o per volontà, anche le poche tracce di altri incontri pubblici sono andate perdute. Non ne sono dispiaciuto. Nel testo che segue ho riportato quanto ricordavo della lunga conversazione, recuperato da appunti scritti in precedenza, annotato di nuovo. Alcuni frammenti sono in relazione tra loro, altri divergono o sono inconclusi, qualcuno ha un titolo o una data. La forma finale della sequenza vorrebbe somigliare a quel “sospiro che risana” e fa “del borbottio un ritmo[2].”

 

 

In Pittura su legno[3], il dramma in un unico atto da cui avrà origine Il settimo sigillo, Ingmar Bergman definisce il suo Narratore “personaggio fuori del tempo”.

È lui ad introdurre la scrittura: “In una chiesa di campagna nel sud dello Småland la nostra azione drammatica risulta dipinta sopra un muro che è proprio sulla destra dell’entrata al deposito delle armi. Il dipinto risale alla fine del 1300 e il tema risente del periodo in cui la peste infuriava in questa regione e nei dintorni. Il nome dell’artista è sconosciuto perciò ho chiamato questo testo Pittura su legno. La vicenda segue a grandi linee i motivi del dipinto. Il racconto pittorico inizia nel quadro in prossimità delle finestrelle del deposito delle armi – è qui che il sole gioca su un paesaggio ancora verde – e finisce quattro metri più in là in un angolo buio, dove gli ultimi avvenimenti si svolgono in un’alba grigia e piovosa…”

 

[Il testo continua con l’apparire dei primi personaggi]

 

La ragazza: Di qui non si entra!

Jons: Dài! Ti perdono perché non sai chi siamo.

La ragazza: Non ci posso far niente. È proibito passare questo confine. Chiunque voglia sfidare il divieto lo fa a proprio rischio. […]

 

 

Essere fuori del tempo, restare sconosciuti, superare il confine, assumere il rischio.

Il Narratore, che presumo vivo tra noi, ancora osserva come ci attardiamo “in prossimità del deposito delle armi”.

 

In una fotografia scattata ad Oreste Zevola, trovata dopo la sua morte, l’artista è in piedi su una moto a Napoli. Avrà vent’anni. Camicia sbottonata, braccia distese e lontane dal manubrio, la moto che scende tra i pini di uno dei viali del Parco delle Rimembranze. Oreste è tranquillo, appare indifferente alle conseguenze dell’esercizio, alla rovinosa caduta che potrebbe venirne. Sembra trascurare sia il precario equilibrio del corpo che il procedere inerte della moto. Per chi guarda, lo sforzo di restare immobile sui predellini sfuma in una zona secondaria dell’immagine mentre si resta affascinati da un’altra evidenza: è il rischio in sé ad evitare la caduta, è l’azzardo a proteggere dall’incidente. Oreste è ritratto sognante e spavaldo, come l’ho visto spesso in passato. Dall’immagine rammenta che nella vita equilibrio non c’è, che il rischio va inseguito: nell’esitazione o nell’impeto. A regolare la statica dei corpi provvederà la minaccia più che la misura.

 

Ho gli occhi ma non mi vedo.

Giuseppe Desiato lascia l’ospedale di Avellino, ha subìto un delicato intervento all’occhio sinistro restando bendato cinque giorni. Al telefono dice: “mi hanno rinchiuso in una caverna buia… poi, in un sol giorno, ho visto da vicino tutti i pianeti del sistema solare… sono stato su Giove su Marte su Saturno… tutto buio tutto luce”. Ancora adesso che esce dal reparto ha sul viso un piccolo schermo di plastica ed una garza a protezione dell’occhio. Al cancello di uscita, ancora lontano dalla mia macchina, allarga le braccia, alza una gamba verso l’alto e resta in bilico. È tra la folla dei pazienti e dei familiari che ingombrano l’accesso, nel via vai veloce dei passanti del vicino parcheggio all’aperto: si sporge sempre più in avanti e resta in quella posizione incerta fin quando ha forza. Ha un portamento da uccello – trema leggermente nel cercare stabilità –, di creatura che grava sulla terra soltanto a metà.

Quella posa gli è familiare, l’ha voluta nella sua gioventù febbrile, la pratica oggi, assiduamente, in pubblico e in solitudine. La ripetizione infinita dei gesti equivale in Desiato a riavvolgere il tempo, a confondere le partenze con le destinazioni, a porle l’una sull’altra, indistinguibili. A tralasciare l’ordine del “sempre uguale” e a designare il gorgo come figura ideale. Altro che linearità nelle varianti. Nell’agire di Desiato non vi è un solo gesto uguale tra migliaia: dal suo corpo sghembo, piuttosto, sfilano le infinite varianti del simile[4].

 

 

Svuotamento del pane.

È un compito lento, meticoloso. Nella casa di Napoli, al vico Santa Maria Apparente, o in quella di Procida, sul porto, Desiato inizia ogni pranzo rimuovendo la mollica del pane, già tagliato in fette sottili, con un coltello seghettato (quelli da trattoria, senza punta e con l’impugnatura in plastica). “Appoggio il pane sul tavolo e lo libero della parte interna con un lavoro lungo, circolare della lama. Alla fine rimane una sottilissima scorza da mangiare”. Un’esile cartilagine, un guscio ricavato dal procedere del coltello nel curvo del pane, adesso può accompagnare il pasto. Ora che ha raggiunto lo spessore di un capello, ora che il vino è versato.

Al termine del pranzo sono le mele ad affrontare il coltello: disposte a distanza tra loro sulla superficie del tavolo, sono prese e riposate più volte in apparente disordine, come a confonderle con il decoro delle tovaglie incerate. Il taglio, lo scarto della buccia, lo scavo preciso che leva i semi, sono accompagnati da commenti ironici e dal sorriso, a volte dal canto in lingue immaginarie. Agli ospiti, quei rari amici che invita, i pezzi di mela sono offerti con un gesto paterno: presi con la punta del coltello vengono portati all’altezza della mano o della bocca di chi è seduto a mangiare. Desiato nutre chi incontra. La ridistribuzione del cibo, che più non riesce alla chiesa – vago ricordo quel nutrimento promesso alle origini, nell’esigua ostia di oggi –, è qui priva di trascendenza. Un nutrimento senza religione a reggere la vita. A tenerle testa.

In una delle vetrine sistemate a destra del tavolo della cucina a Napoli, tra libri, farmaci e disegni, un piccolo contenitore di plastica trasparente conserva il pezzetto di pane chiaro che nel 1990 Al Hansen aveva firmato e dedicato con inchiostro nero al “fratello Desiato”. Una parte del pane donato è coperto da un tovagliolo di carta bianca ripiegato più volte. Nella mollica rafferma, che si intravede nel panneggio della carta leggera, è incastonata una scatola di cerini.

“C’è gente nel mondo dell’arte esperta nel togliere le increspature della tela, il formalista è sfidato dalle increspature: “questo proprio non si fa”. […] Come Robert Filliou, Desiato è l’automatico antagonista di qualsiasi canone accettato”, scrive Al Hansen.

“È per un paese meno merda che ho dipinto, filmato e agito nella mia vita”, dice Desiato.

 

Di spalle.

Arrivo a casa di Licia Rognini Pinelli alle 16, come altre volte. Salgo a piedi, nonostante l’ascensore nuovo. Lei ha già aperto la porta e aspetta nella penombra dell’interno. Posso intravederla dagli ultimi scalini, il braccio leggermente poggiato alla parete dell’anticamera. Ogni volta così. La sua figura appena visibile grazie a quella luce tenue che viene dall’ampia camera opposta alla cucina. L’ultimo incontro è stato a dicembre 2017, almeno una volta ogni due mesi è la regola non scritta[5]. A volte con maggiore frequenza se resto a Milano più giorni. Giusto il tempo di salutarci, come stiamo, quanto tempo è passato, se voglio bere qualcosa, poi subito tutti i racconti e i commenti che riusciamo a dirci nell’arco di due, tre ore fitte. Non prendo appunti, dimentico quello che ci siamo confidati, ogni tanto scrivo una frase o una parola che voglio ricordare. Mi capita di non trovare neppure più quello che disordinatamente ho scritto o tentato di appuntare. Seduti al tavolo tondo della cucina guardiamo fotografie, quelle dei suoi numerosi album familiari, scattate con una Zeiss Ikon degli anni ’40 – “un regalo di mia madre sarta, comprata usata a Senigallia” –, conservate in ordine cronologico ed accompagnate da un rigo di testo in corsivo, una data, dei nomi. Guardiamo le immagini che porto con me (stampe da libri o da giornali, originali), guardiamo dei brevi filmati su un cartone messo in verticale sul tavolo (li proietto con un videoproiettore tascabile, quelli minuscoli che uso in giro per il lavoro). Parliamo di relazioni, di visioni e di cose sognate, di come siamo stati o siamo, di come va zoppicando il mondo. Nessuna nostalgia, nessuna tristezza ci prende mai. Neppure quando compaiono le ferite.

 

Di Licia, prima di conoscerla, avevo letto Una storia quasi soltanto mia. A Piero Scaramucci che l’intervistava da settimane diceva che i suoi mancati ricordi equivalgono ad un “nascondersi”, che dal dicembre 1969 vive “volutamente con poca memoria perché gli anni sono stati faticosi” e se “racconto è, forse, per cercarmi di tirarmene fuori, liberarmi da queste cose che non oso, io, guardare in faccia”. “Per darti un’idea visiva. Io sono qui che sto parlando con te, sono abbastanza tranquilla. E dentro di me c’è qualche cosa, come un’altra persona che volta la faccia dall’altra parte e non ti guarda neppure”.

Girarsi, dare le spalle, continuare a parlare privando l’ascoltatore dei lineamenti del viso e del movimento delle labbra. Essere due mentre si è uno: dentro di me un’altra Licia si volta. Entrambe, nella parola e nel silenzio, sono in contatto. Come gli amanti giapponesi di Kenji Mizoguchi[6] legati spalla a spalla e portati a morire perché adulteri. Tutti e due sono in estasi, le labbra sorridono nonostante i volti sottratti e la morte vicina, si tengono la mano e sanno di essere un unico corpo. Le labbra si muovono ma il suono delle parole giunge in ritardo, fuori sincrono. Oppure ascoltiamo il suono delle parole ma non vediamo la bocca che le pronuncia, come nei film di Béla Tarr o di Pierre-Yves Vandeweerd[7].

 

Una figura, di spalle, guarda dalla finestra. È una immagine ricorrente nelle inquadrature di Béla Tarr. Il movimento della macchina da presa nel primo piano sequenza di Perdizione, procede a ritroso: si allontana dallo spazio esterno e si sposta in quello interno, fino a mostrare allo spettatore la schiena di chi sta ancora guardando fuori. In modo simile, quel fuori sono le baracche e i vicini guardati con attenzione dal medico di Satantango o la campagna squassata dal vento vista con fatica dal contadino e da sua figlia ne Il cavallo di Torino. La persona di spalle di Béla Tarr “è l’uomo che osserva le cose venire a lui”, scrive Jacques Ranciere[8]. Nel suo cinema “non sono gli individui che abitano i luoghi e si servono delle cose […]  sono innanzitutto le cose che si dirigono verso di loro, li circondano, li penetrano o li respingono”.

Parole dette stando di spalle. Dal “parlante al suo destinatario”, la parola pronunciata dagli attori di Béla Tarr non è associata all’espressione del volto o al movimento delle labbra: “colui che parla, può guardarci frontalmente, ma più spesso ne scorgiamo il profilo o la schiena e frequentemente sentiamo le sue parole senza vederlo in faccia”. “La voce c’è, staccata dal corpo a cui appartiene, ma presente nel movimento all’interno della sequenza e nella densità dell’atmosfera […] le voci non aderiscono ad una maschera, ma ad una situazione”. Le parole degli attori “già staccate dai loro corpi, sono un’emanazione della nebbia, della ripetizione e dell’attesa. Circolano nell’ambiente, si dissolvono nell’aria o agiscono su altri corpi suscitando nuovi movimenti”.

 

Il suono della parola fuoriesce dalla bocca concedendosi un ritardo o un anticipo sull’immagine. Ma non è tutto: colui che è di fronte al nostro sguardo, il volto che a sua volta ci guarda, si ritrae curvandosi al buio. Eppure non abbandona il confronto: dalla sua posizione arretrata continua ostinatamente a guardare, nella torsione che ne disperde i segni rivela che la frontalità non è l’unico espediente dell’occhio. Annuncia che è finalmente divenuto “Il ritratto […] in tutta la tensione della sua ambivalenza. Da una parte – presenza in sé – chiusura nell’opera, figura sovrana e murata, glorificazione del volto e della visione; dall’altra parte – uscita da sé – gesto e pennellata del dipingere, figura smarrita, sguardo che si perde al ritmo della sua stessa cattura. Ma i due lati sono le due facce della stessa tela: non un faccia a faccia, ma al contrario la partizione interna di una stessa faccia schiena contro schiena[9]

 

L’andare delle cose verso l’occhio di Béla Tarr è un pensiero speculare alle considerazioni di Ludwig Wittgenstein: “Noi non vediamo l’occhio umano come un ricettore. Quando vedi l’occhio, vedi qualcosa uscirne. Vedi lo sguardo dell’occhio[10]”. Oppure di Maurice Merleau-Ponty: “Basta che io veda qualcosa per saperla raggiungere e afferrare, anche se non so come ciò avvenga nella macchina nervosa […] dico che una cosa è mossa, ma il mio corpo si muove, il mio movimento si dispiega; non avviene nell’ignoranza di sé, non cieco a se stesso, s’irradia da un sé11.” Jean-Luc Nancy aggiunge: “Lo sguardo è la cosa che esce, la cosa dell’uscita […] e la cosa in sé dell’uscita o dell’apertura non è uno sguardo su un oggetto, ma l’apertura verso un mondo. In verità, non è più affatto uno sguardo-su, è uno sguardo tout-court, aperto non su ma dall’evidenza del mondo[11].”

 

Due direzioni, due tensioni, al lavoro tra loro o in dissidio, concorrono ad agitare lo sguardo. La prima dice che guardare equivale a sporgersi (inclinare sé stessi correndo incontro all’agguato), la seconda dice che guardare equivale a ricevere (aprire l’orbita all’agguato che viene). Uno: l’occhio si tira all’esterno: “raggiunge e afferra” l’animato e l’immobile che tutto intorno avvolge la vita, e che dalla vita affiora. L’intero corpo si getta al mondo, accettando l’insidia che fuori lo attende. Due: l’occhio, scelto dal mondo, diventa magnete: attrae il pulviscolo e ogni dettaglio che la luce compone, prende in sé il minuscolo e l’immane che abbiamo di fronte, di lato, di spalle. Sotto e sopra i nostri corpi. Il mondo si inocula in noi, portando l’insidia più dentro che può. “Guardando vedo e (mi) sorveglio”, scrive Jean-Luc Nancy, “Non posso guardare senza che ciò mi riguardi[12].”

 

A Macerata[13]: […] Guardare non ha a che fare con l’innocenza o l’attesa, guardare è confliggere, far male agli occhi nostri e alle cose guardate (mentre il mondo si svolge). Sarà da un taglio che vedremo le cose apparire, dalla ferita che lascia andare il vedere e ne aspetta il ritorno. […] Ad avere fortuna, la spina partita dall’occhio può piantarsi di nuovo, più in fondo, al rientro. Un bene riceverla, tenerla affilata e robusta (affinché il duplice agguato degli occhi e del mondo proceda contro il troppo vedere). […] In sonno possiamo guardarci dall’alto: ecco, spingiamo la schiena in avanti, flettiamo le gambe, curviamo lo sguardo fino a trovare le spalle. Quelle nostre, quelle del mondo in penombra. Una scoperta dopo l’altra viene dal retro degli oggetti, dal verso inesplorato, dal familiare ora inedito. Sporgiamo lo sguardo mentre pieghiamo le ossa, ancora più avanti, più avanti, questo l’esercizio per afferrare la nuca nascosta. Della ferita, in sonno e da svegli, ispezioniamo gli astratti confini, i lembi separati di uno stesso tessuto. In sonno, da un solo osso a vista scorgiamo l’intero scheletro sepolto. […] Altro da fare: portare un eco del sonno al risveglio, sentirlo ancora mentre il mattino già apre il suo chiaro scenario; il sognante con noi, un pezzo almeno, nel tempo luminoso in cui è chiesta unicamente ragione. Dormi, veglia, dormi, veglia, nel nostro occhio si aggira l’ipotesi (il presupposto) di una trance, la dimensione del pieno vedere sommato al suo opposto. Dormi, veglia, dormi, veglia, mai più il tempo di Dio o delle merci.

 

 

 

[…] Perché parlino

i morti bisogna respirare

dentro le loro bocche.

Franco Fortini, Non possiamo[14].

 

 

Guardo Licia e penso a Giuseppe, ai nostri appuntamenti costanti e senza ambizioni, come privi di scopo. Resta un mistero questo parlare frequente con Licia e Peppe levando il futuro alle parole, questo dire per dimenticare. Questo stare seduti ad un tavolo visibilmente indifesi, arma e scudo a terra. Ciascuno di noi affidato all’altro, ostinatamente inoperoso, acquietato solo dalla “chiara didattica della conversazione amichevole[15]”. Nient’altro. Un privilegio il dispendio, soprattutto per me che, con anni in meno, forse, sopravvivrò.

 

E a Claudio Morganti, con cui divido a distanza l’enigma della morte e dei morti. Ci scriviamo, ci inviamo immagini (nostre ma soprattutto di anonimi) che guardano allo spegnimento della vita, al residuo delle esistenze che cingono le nostre case e i nostri occhi, alle ombre prodotte da gesti voluti e a quelle che ci sorprendono perché inattese (pensiamo provengano da interstizi nascosti, da paesi addossati al nostro reale).

Rileggo un appunto. […] Finita l’attesa, ecco l’ombra. Inquietante ma non spaventosa, fraterna, pur se estranea, potente perché provvisoria. Parvenza nata da luoghi imprecisi, disobbediente allo sguardo e agli usi dei vivi; venuta da dimensioni che fissano l’anteriore al recente svelando che allora non è altro che adesso.

Ancora. […] Desideriamo vederci eppure sciupiamo i giorni indugiando a distanza, ci promettiamo lavoro e restiamo inattivi. Chissà, questo è il nostro modo per essere a fianco e per riposare, poggiando la testa su spalle lontane. Molto di quello che penso e disordinatamente faccio ha a che fare con Claudio. E con Antonio[16], presenza comune, irrinunciabile ad entrambi.

[…] Non ce lo siamo mai detto, ma sono convinto che molti dei nostri lavori, seppur brevi o improvvisi, hanno uguale premessa: l’invisibile inchino a chi ha lasciato la vita, a chi più non è nel nostro svilito ascoltare il reale.

 

[…] L’ombra si deve salutarla a occhi socchiusi.

Dal frutteto se ne va senza cogliere nulla.

René Char, 1965[17].

 

 

Colpire il quadrante.

Sono schierato nella “categoria degli uomini che sono morti”, dice di sé Gustave Courbet all’indomani del massacro che chiude l’insurrezione dei comunardi a Parigi nel maggio 1871. “Oggi appartengo chiaramente, tutto saldato, alla categoria degli uomini che sono morti, uomini di cuore, uomini devoti alla Repubblica e all’uguaglianza senza interessi egoistici”. Dopo la prigionia e la condanna a risarcire i danni per l’abbattimento della Colonna Vendôme, varcando la frontiera con la Svizzera, “Quel 23 luglio 1873, [Courbet] era un uomo morto e la polizia non lo sapeva. […] Si è tirato fuori dal grande ricatto. Ha abbandonato la strada dominata dalle fesserie degli allori da mietere, dei trionfi da raccogliere, dell’onore da conservare più bianco del bianco nel bel mezzo del massacro, della salute che quando c’è, c’è tutto; ha buttato via allodole, specchietti e tutto il resto; si è concesso di essere cieco al richiamo dei manifesti, e sordo a quello dei pifferai. Così come i morti, si è procurato un passaggio in un altro mondo, accontentandosi del primo che ha trovato[18].”

 

“L’attributo di realista mi e stato imposto come agli uomini del 1830 s’impose quello di romantici. In ogni tempo le etichette non hanno mai dato una giusta idea delle cose. […] Ho studiato, al di fuori di qualsiasi sistema e senza prevenzioni, l’arte degli antichi e quella dei moderni. Non ho voluto imitare gli uni né copiare gli altri; non ho avuto l’intenzione di raggiungere l'inutile meta dell’arte per l’arte. No. Ho voluto semplicemente attingere dalla perfetta conoscenza della tradizione il sentimento ragionato e indipendente della propria individualità. Sapere per potere, questa fu sempre la mia idea. Essere capace di rappresentare i costumi, le idee, l’aspetto della mia epoca, secondo il mio modo di vedere; essere non solo un pittore ma un uomo; in una parola fare dell’arte viva, questo è il mio scopo[19].”

 

“Eccomi invischiato fino al collo, per volontà del Popolo di Parigi, nelle questioni politiche. Presidente della Federazione degli artisti, membro della Comune, delegato comunale, delegato alla Pubblica Istruzione: le quattro funzioni più importanti di Parigi. Mi alzo, pranzo, partecipo e presiedo dodici ore al giorno. Comincio ad avere la testa fusa. A dispetto di queste preoccupazioni infernali e nonostante io debba occuparmi di questioni alle quali non ero abituato, mi sento meravigliosamente[20].”

“Sì… bisogna incanaglire l’arte!”

 

“Esistenza in atto”, è l’espressione concisa con cui Karl Marx definisce la Comune di Parigi. “Una intensità di esistenza”, “folgorante e totalmente imprevedibile” della sollevazione, scrive Alain Badiou, che “per la prima volta, e finora anche per l’unica, rompe con il destino parlamentare dei movimenti politici operai e popolari[21].” Quaranta anni prima, di nuovo a Parigi, gli insorti della Rivoluzione di luglio sparano contro gli orologi pubblici. Lo fanno, dicono i racconti, singolarmente e in piazze diverse, lo fanno affinché la scansione regolare della vita si infranga al cospetto dell’imprevedibile in corso. Ecco: se l’andamento consueto del giorno, il suo rintocco glaciale, ci condanna alla fame e al timore, il colpo tirato al quadrante ne blocca il fluire. Acceleriamo il respiro trattenendo il presente, tutta la vita accadrà ora, in questa giornata infinita. “Appena scese la sera del primo giorno di battaglia, avvenne che in molti luoghi di Parigi, indipendentemente e nello stesso tempo, si sparasse contro gli orologi delle torri. Un testimone oculare, che deve forse la sua divinazione alla rima, scrisse allora: Qui le croirait! On dit, qu’irrités contre l’heure/ De noveaux Josués au pied de chaque tour/ Tiraient sur le cadrans pur arrêter le jour[22].”

 

Ancora Walter Benjamin, nei Passages: “Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio.”

 

 

[…]

il corpo di Giuseppe Pinelli / ancora e ancora cade dal quarto piano / d’ogni palazzo del privilegio / emblema d’un popolo ridotto al silenzio

il corpo di Giuseppe Pinelli / è buttato giù dal quarto piano del cielo / ogni giorno per ogni / lavoratore italiano / con la sua vita buttata via / dal lavoro forzato che uccide

 […]

il corpo di Giuseppe Pinelli cade / come cadono nel buco del tempo tutti i corpi di tutti i prigionieri / di tutte le prigioni del mondo / e tutto il mondo è una prigione tenuta dallo stato / e dovunque c’è una prigione c’è anche uno stato

 

[…]

il corpo di Giuseppe Pinelli cade come una musica / e le sue note per un secolo ci chiameranno / in assemblea generale a creare un teatro nel quale nulla sia forzato

 

[…]

ma non è ancora finita non siamo ancora morti / i tedeschi son vivi e gli italiani

 

ed anche Baader / in ogni cucina

ed anche Pinelli / su ogni selciato[23]

[…]

 

Castiglioncello, Milano quattro secondi.

Come dire quello che non è visto? Come dirlo se le cose fatte, e non viste, mancano di prove?[24]

Quattro secondi è il tempo di caduta al suolo “di un uomo di media corporatura da un’altezza di circa venti metri”. Il corpo dell’anarchico Giuseppe Pinelli, fatto scivolare nel vuoto dalla finestra-balcone dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, impiegò pochi istanti nel raggiungere il selciato del cortile della Questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969. Trascritto negli atti processuali, quel tempo ha riordinato le azioni disperse che avevo iniziato alla fine del 1969 e non avevano ancora forma e nome. Riecheggiavano quella spinta colpevole, quell’efficienza dello Stato nel dare morte ai suoi cittadini pensanti, ma non si dichiaravano gesti politici o d’arte. Tutt’ora, gli oggetti, i testi e le azioni che da quel tempo e da quell’altezza derivano, hanno origine da un desiderio inspiegabile e non intendono le categorie dell’arte, della militanza, della denuncia politica.

Quattro secondi è l’unità di misura che regge la parte più attuale delle azioni, che ha scorto il ritmo necessario a tenere uniti materiali discordanti tra loro ed ha permesso all’intermittenza[25], che disturba insistentemente le immagini e i suoni del lavoro, di mimare l’oscillazione di un pendolo. L’oscillare da fermo di un pendolo, questa la figura che si è nascosta, lungamente, tra gli oggetti a vista. Figura e macchina irrealizzabile, disegnata dall’uguaglianza di movimento e inerzia (un muscolo dormiente, trattenuto), figura che toglie il sonno per l’insopportabile sgomento che porta in sé.

 

I venti metri sono l’unità spaziale in cui quel tempo si manifesta, srotolandosi verso il basso come una stoffa, un tessuto leggero che ricorda, stordito, ogni metro del suo eterno cadere. Un cadere che giunge fin qui, nel presente, come scrive Beck del corpo di Pinelli.

Quando ho potuto, ho prodotto dei fori di varie dimensioni nelle pareti o nei pavimenti di luoghi deserti, per poi lavorare sul ciglio dei varchi. Non erano precipizi, piuttosto spiragli da cui il vuoto può salire veloce e perdersi nell’alto, come per uno sprofondare opposto alla norma: un vuoto rivolto al cielo invece che al suolo (a volte ho usato cantieri edili dove erano già presenti squarci nelle mura, riuscendo ad entrare all’uscita delle maestranze, a volte edifici senza più abitanti e guardiani). Per avere quei fori, per modificare o osservare una pietra, un ferro, gli insetti, per vedere come cresce una pianta negli intonaci o uno specchio si offusca, ho divelto serrature e segato catene. Ora mi manca la forza ma insisto nel rifiuto di chiedere libero accesso o spiegare alcunché per ottenere un permesso. Nell’accesso illegale vi è stato l’esile senso di ogni pensiero o cosa venuta finora, non ho altra coscienza. Spesso ho ricevuto le chiavi di un ambiente senza rispondere a troppe domande, come per connivenza. Degli sconosciuti mi hanno aperto l’ingresso di una fabbrica o un di ospedale dismesso, nulla in cambio ho dovuto se non un abbraccio all’uscita. Mi è strano pensare a quanto sia stata influente la decisione di negare alla vista le azioni, di rinunciare alla parola per far aprire un luogo serrato. Quasi nessuno ha assistito al lavoro degli insiemi, neppure chi ha aperto la porta o con me ha costruito impalcature e portato elettricità a dispetto del buio. Similmente all’aperto: un che di incorporeo si è svolto nel solito fluire del giorno.

 

Da un appunto[26]. Nelle stanze l’inanimato ci studia, ispeziona le nostre movenze, sa cosa pensiamo. Non provo soggezione, neppure volontà di dominio, tra l’intruso e le stanze non vi è parità, il rapporto è ineguale. Qual è la forma del nostro passo al suo interno, la sua velocità? E quanto durerà il domicilio in quel luogo? Non so, a dirlo sarà una trattativa, un negoziato aperto tra spazio (il preesistente senza parola) e veniente (l’ospite provvisorio), pronti entrambi alla resa. Il cardine della breve alleanza tra impari poggia su margini incerti, per nessuno ci sarà ricompensa. Ripeto a me stesso: non essere certo che l’incontro è per sempre […] guarda dov’è la parola delle pietre, guarda dov’è la tua: opponile, mischiale, falle combattere.

[…] Il lavoro appartato è fatto di metodi e di risultati che non hanno né corpo né scopo. Agisce incurante degli occhi e del ricordo, agisce contro la rappresentazione, immediata o postuma, agisce contro il timore del vuoto. A volte, anche quando il lavoro si scopre, non vi è conseguenza: quasi nulla favorisce chi guarda, ancora più confuso si ritrova chi mostra…

Ci si può dedicare a rendere improduttivo il fare per portarlo alla scomparsa. Per farne un semplice pensiero. Dunque: pensare cosa può essere fatto ed evitare di farlo. Fino a rendere inservibile il gesto e l’oggetto che ne deriva. […] Non si tratta di cospirare in silenzio, piuttosto di cospirare il silenzio.

 

Ancora[27]. In incontri pubblici e in privato, confido il malessere di dover riferire cosa accade quando sono in un luogo isolato, nella mia stessa casa o in strada e faccio un lavoro. Tento di dire a me stesso, a voce alta, che quanto emerge dalla frequentazione dei luoghi, quanto prima non c’era ed ora è comparso (un lavoro, un’opera, una sostanza a sé), elude l’ambito dello straordinario e della unicità. Lo scarto tra prima e dopo aver agito è impalpabile, rimane sfocato come l’azione stessa, una tra altre: per quanto singolare, nella normalità ha avuto origine e nella normalità riposa. Non sono sicuro, cioè, che sia una intenzione, una coscienza dell’atto, a procurare chiaramente la mutazione del quotidiano in altro. Preferisco pensare che nel fare un lavoro sia stato solo rimosso l’antico ordine che divide il consueto dal difforme. L’ordine che nella separazione nomina il privilegio. […] Da un lampo, da un movimento involontario, da un passo simile ad altri, da un fraintendimento, può venir fuori un lavoro. L’opera a sé, se veramente affiora, può essere tenuta in custodia ma ancora più dolce e terribile è perderla. Tanta fatica per farla venire e poi lasciarla andare, mancarla. Preferibile opporsi da subito alla sua comparsa e lavorare per l’inutile, il mai nato.

 

Ancora[28]. Praticare la semina, disinteressarsi al raccolto. Un pensiero secco. Quasi fossimo contadini, dieci e più ore al giorno curvi al lavoro, eccitati e felici di preparare la terra ma restii al risultato. Darsi da fare, per tutto il tempo e la forza che si ha, eludendo la conclusione. Dispendere il tempo, il bene prezioso che una sola volta si ha. Una volta e mai più, questo il delirio, il doloroso piacere.

[…] Se le nostre posizioni si manifestano attraverso gli atti, dovremmo essere capaci di attuarli nella zona della loro rarefazione. Il mestiere dell’opera, della sostanza a sé, non mira a commuovere ma a poggiare un che di appuntito negli occhi. Sottopelle. Inaudita è l’opera, ancora di più se interna all’uguale, se squaderna l’esistente al solo apparire. Arriva per dirci che i sensi vanno corrotti più che esauditi, che vanno scontentati, confusi. Così i nostri dispositivi, le nostre lenti sul mondo, le tecnologie che vorremmo d’aiuto, vanno costretti a deviare. A perdere le funzioni primarie. […] Sensi degenerati, disinteressati all’arte, questo “fragile nome” che provvede alla continuità dell’esistente, a rendere sopportabile la vita com’è, a spegnere il fuoco.

 

“Prima o poi, poi o prima / le parole dette, le parole scritte, / presto o tardi tutte le parole / sono destinate a sparire / spariscono – Le parole sulla carta, le parole / sulle pietre, le parole sui rami / spariranno tutte. – Se queste parole e non parole / sono scritte su materie / che presto si decompongono, che / durano poco più di un / attimo o poco più di un millennio / che cosa esse sono[29]”.

 

 

 

Dicembre 2017, Napoli.

Una araucaria, pianta dioica[30], domina con i suoi venticinque metri d’altezza il terrazzo di casa. Ogni mattino va un saluto al suo indirizzo anche se lì, mi viene detto, tra le grandi radici, si nasconde il termitaio che rode i solai del circondario. La mia casa ne viene consumata un po’ alla volta, i pavimenti si incrinano. Nella zona più esposta, le travi in legno sono divenute canoe, vuote all’interno mentre ne resta integra la buccia. Un nido è scoperchiato durante i primi lavori di consolidamento: gli insetti, bianchi e ciechi, interrompono il pasto come fulminati dal sole, rumore e luce non riguardano la loro condotta. In tarda primavera la sciamatura delle larve ha luogo: nugoli di insetti, dalle ali sottili e nere, fuoriescono dagli interstizi degli infissi e del tufo. Un turbinio che dura ore, per più giorni. Poco si può fare, se non sostituire ogni legno col ferro.

In tarda primavera, ugualmente, ma solo ogni tre, quattro anni, vengono in casa anche i semi dell’albero. A migliaia. Hanno ali, come le termiti allo schiudersi delle uova, e finiscono con una minuscola coda. Misurano tre centimetri (quattro e più, se si conta la cartilagine che ne allarga il corpo) e germinano anche dopo anni dal volo. L’araucaria, cilena per abbondanza e origini, appartiene all’età dei dinosauri, mi dicono. Sulle lunghe rampe del Petraio, sui balconi, su tutti i terrazzi del labirinto di case intorno, si posano i semi. Coprono un’ampia zona, fino ai giardini e alla terra sotto la collina di San Martino. Eppure, da quell’esplosione di semi mai è nata altra pianta.

Mi capita di sognare le termiti al lavoro, così vedo i semi volteggiare e introdursi nelle travi, come una protezione, come a nutrire gli insetti ma anche ad irrobustire la casa. In realtà penso alla lunga, vana, fatica della pianta, a tutto quell’aprirsi estenuante del fiore per espellere i semi: tre, quattro anni ogni volta e niente che sboccia. Quanto insegna quel fusto, quanto assomiglia alla vita dei più.

 

 

Alla pietra del confine.

Il severo signore che non parla, tra i personaggi di Pittura su legno, è per Bergman “la morte al maschile”. Karin lo annuncia in scena come “Un essere possente, accompagnato da una ragazza e da un giullare che porta un liuto sulla spalla […] Vengono verso di noi sotto una pioggia mattutina, in silenzio”. Altro personaggio muto del dramma è il Cavaliere: solo con dei cenni ordina a Jons, suo scudiero, di proseguire il cammino o di fermarsi, oppure “scuote la testa in segno di diniego” al sentir ripetere la storia di “quei sudici pagani” che “in una bella mattina di domenica, proprio quando stava raccogliendosi in preghiera gli hanno tagliato la lingua”. Jons, nonostante i segni di disapprovazione del suo “povero padrone” è ostinato nel dolersi: “Per dieci anni siamo stati in Terra Santa e ci siamo fatti mordere dai serpenti, pungere dagli insetti, azzannare dagli animali feroci, massacrare dai pagani, avvelenare dal vino, impestare dalle donne, divorare dai pidocchi e annientare dalle febbri… Tutto per la gloria del Signore!”

Verso la fine del breve testo, quando il Cavaliere “si mette in ginocchio e borbotta qualcosa”, sarà La Ragazza a rendere comprensibili quei vaghi rumori emessi dall’uomo: “Io posso pronunciare le parole che il cavaliere fa uscire in suoni oscuri dalla sua bocca senza lingua…” Eppure quella facoltà non ha più senso, a ognuno è già ordinato di tacere. “Presso la pietra del confine”, nella scena dominata dalla peste, solo “si sente il suono del liuto”, voluto dal severo signore per dare inizio alla gran danza che conduce alla morte: “Silenzio! Ci allontaniamo dall’alba, e volgiamo verso i paesi più bui mentre la pioggia ci deterge la faccia. Disponetevi…” dice infine Karin.

È dunque alla “pietra del confine” che i volti si asciugano, che si ripuliscono perdendo i segni della loro distinzione. Dal limite estremo, dall’ultima soglia del tempo, il senza-volto danza e muore mentre intorno la natura tace. Si danza e si muore perché il volto è perso, così la parola, ulteriore segno del volto. Ma non sappiamo se quel “Disponetevi, il signore severo è molto esigente” sia un segnale di resa o di incombente rivolta. L’invito ad allinearsi, a prendere posizione, potrebbe intendersi al pari di un appello segreto: qualcuno, Karin, Bergman o un appestato, senza-volto e senza-nome da sempre, sprona i danzatori muti, e accecati, a schierarsi in diverso ordine, a battere un passo sgraziato, quello che “suda e barcolla[31]” perché assume il ritmo che risponde alla vita. Lo sforzo, la caduta, l’esercizio dello stare al suolo o in piedi tremando. A volte ritti su un solo piede.

Disporsi. Togliersi volontariamente il volto, prima ancora del confine estremo. Rinunciare alla parola ed al nome, al proprio lavoro e agli inutili beni, prima ancora che il vuoto ci prenda. Sfigurati e silenti da vivi, ma insieme con altri. Con molti, di lingua e terra diverse, come già accade quando abbiamo fortuna. In molti a colpire il quadrante che immobilizza il giorno e vela la gioia.

 

 

 

 

 

[1] L’incontro con Patrizio Esposito si è svolto al Castello Pasquini di Castiglioncello nei giorni 25 e 26 marzo 2017 (ndr)

[2] “Il sospiro che riporta eretti, che raddrizza… l’attimo… quando nei borbottii suggeriti dalla voce interiore compare il ritmo”, Nadežda Jakovlevna Mandel’štam in Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, Milano, Adelphi, 2017.

[3] Ingmar Bergman, Pittura su legno, Torino, Einaudi, 2001 (prima edizione in lingua originale: Trämålning, Stockolm, Norstedts Förlag, 1955.)

[4] Sporadici materiali di Giuseppe Desiato (Napoli, 12 settembre 1935) sono reperibili in rete, anche se la maggior parte dei film Super 8 e delle fotografie delle sue performances, dagli anni ’60 agli anni ’90, non sono disponibili per volontà dell’autore (che ha ciclicamente eliminato o nascosto l’opera realizzata). Rare sono le tracce delle azioni che tutt’ora avvengono quotidianamente in strada a Napoli e a Procida.

Immagini, testi critici o autobiografici sono disponibili in: Giuseppe Desiato, Napoli 2, testo di Emilio Villa, con versione in napoletano di Desiato e Concetta Belloni, 15 fotografie originali scattate a L’Aquila e Sorrento 1963/64/65, Reggio Emilia, edizioni Pari&Dispari, 1973 (100 esemplari numerati a cura di Rosanna Chiessi); Desiato, opere 1958-2008, a cura di Sergio Poggianella e Micaela Sposito, Rovereto, Stella edizioni, 2008; Giuseppe Desiato, Il teatro dell’effimero, a cura di Angela Madesani e Antonello Rubini, Roma, Galleria Delloro, 2009. I due ultimi volumi non hanno ricevuto pieno consenso da Desiato, assente alle due retrospettive di Trento e Roma: “meglio bruciare che mostrare.”

Una sequenza fotografica (di Giovanna Belloni) delle azioni in strada di Desiato, è pubblicata in Da questi anni, quaderno edito in quattro copie, Napoli, L’alfabeto urbano, ottobre 2016.

 

[5] Gli incontri con Licia sono iniziati nel dicembre 2012, dopo che il settimanale “Alias” aveva pubblicato alcuni testi su Milano quattro secondi (una conversazione con Maria De Vivo e la riflessione di Luca Lenzini, del Centro studi Franco Fortini, sugli spazi e le intenzioni del progetto), insieme a fotografie di oggetti costruiti dal 1969. L’invito venne da Silvia e da Claudia, figlie di Licia e di Giuseppe Pinelli, conosciute al Leoncavallo il mese precedente. A loro devo il carattere immediatamente familiare del primo appuntamento. A Silvio Castiglioni, Andrea Perini, Mauro De Cortes (del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa) e Piero Scaramucci, devo il sostegno paziente ad alcune delle azioni di Milano e Chiaravalle.

[6] Gli amanti crocifissi, Giappone, 1954. Il sorriso degli amanti del film di Mizoguchi è oggetto di riflessione in Alain Badiou e Slavoj Žižek, La filosofia al presente, Genova, il Melangolo, 2012.

[7]  I film di Vandeweerd, estranei ai circuiti tradizionali, sono stati realizzati nel corso di lunghi spostamenti in regioni impervie e con attrezzature leggere. In Africa, il regista belga ha raccolto materiali visivi e sonori nell’arco di oltre quindici anni per montare Nemadis (2000), Le cercle des noyés (2007), Les dormants (2009), Territoire perdu (2011). Le voci e il suono ambiente registrati sul campo, talvolta in clandestinità (come nel caso dei prigionieri mauritani della fortezza di Oualata ne Le cercle des noyés), sono stati rielaborati a distanza e nel montaggio evitano il sincrono con le immagini. La sceneggiatura, dice l’autore, si sviluppa “in forma di un processo di scrittura continua. […] Dopo aver costruito legami privilegiati con i testimoni, registro i canti dal vivo della vita, delle sparizioni forzate e dell’esilio. L’idea è quella di preservare nelle registrazioni la situazione febbricitante che abita le storie raccontate per la prima volta o quasi. Le modifiche del film somigliano alla tessitura di una maglia: le immagini sono montate contemporaneamente alla narrazione sonora con l’idea che ogni suono scelto conduca all’immagine che seguirà e viceversa […] la forza dei film risiede nella loro capacità di sublimare l’estetica dando allo spettatore un luogo da cui muovere verso il pensiero.” www.pierreyvesvandeweerd.com

[8] Jacques Ranciere, Béla Tarr. Il tempo del dopo, Milano, Bietti, 2015.

[9] Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Milano, Raffaello Cortina, 2006.

[10] Ludwig Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Milano, Adelphi, 1990.

[11] Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, Milano, SE, 1989.

[12] Jean-Luc Nancy, Il ritratto… cit.

[13] Appunti per Defigura, I edizione, Macerata, aprile 2013.

[14] In Franco Fortini, Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Milano, Mondadori, 2014, p. 812.

[15] “La tiepida luce irradiata dagli insegnamenti orali, la chiara didattica della conversazione amichevole, è di gran lunga superiore all’azione istruttiva e suadente dei libri”, Osip Mandel’štam, Viaggio in Armenia, Milano, Adelphi, 1988. Il riferimento è alle conversazioni del poeta con l’entomologo Boris Kuzin, conosciuto a Erevan, e interrotte a causa dell’arresto dello scienziato per “propaganda antisovietica” nell’aprile del 1933: “sono stato privato del mio interlocutore, del mio secondo io.”

[16] Antonio Neiwiller, Napoli 9 marzo 1948 - Roma 9 novembre 1993.

[17] René Char, Vittorio Sereni, Due rive ci vogliono. Quarantasette traduzioni inedite, con una Presentazione di Pier Vincenzo Mengaldo, a cura di Elisa Donzelli, Roma, Donzelli, 2010, p. 19.

[18] David Bosc, La claire fontaine, Paris, Verdier, 2013 (edizione italiana La chiara fontana, Roma, L’orma editore, 2017.) Monumento al potere napoleonico, “La Colonna Vendôme era nata come fon­da­zione e pro­pa­ganda di uno spa­zio sociale poli­ti­ca­mente deter­mi­nato: essa cele­brava le glo­rie mili­tari dell’Impero e dun­que una defi­nita gerar­chia di poteri, a cui veniva sot­to­messo lo spa­zio geo­gra­fico. La colonna era il sim­bolo dell’incatenamento e dell’incantamento dei molti all’Uno ver­ti­cale e con­ver­gente dello Stato”. Mario Pezzella, Il socialismo della Comune. A partire da un libro di Kristin Ross, “Altronovecento”, febbraio 2016.

[19] Gustave Courbet, prefazione all’opuscolo per la personale al Padiglione del Realismo, Esposizione Universale, Parigi 1855.

[20] Id., lettera ai genitori, 30 aprile 1870.

[21] Alain Badiou, La Comune di Parigi, Napoli, Cronopio, 2004

[22] Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus Novus, saggi e frammenti, traduzione di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1962.

[23] Julian Beck, Pinelli Baader manifesto, Napoli, Bologna, Milano, Frankfurt-am-Main, 7 gennaio 1977 - 27 gennaio 1979, ritrovamento e traduzione di Serena Urbani, testo integrale: www.arivista.org/?nr=201&pag=201_09.htm

[24] Milano quattro secondi è un insieme di gesti che, come altri lavori, chiamo “di lunga durata”. Svolti lentamente, tra interruzioni e riprese, gli insiemi non sono ultimati sia per incapacità che per desiderio. Composti dalla somma di oggetti e di spazi costruiti nel tempo, o trovati già pronti (fatti da altri, abbandonati, presi senza permesso), hanno avuto una esistenza provvisoria ed appartata. Il loro procedere resta elementare: qualcosa avviene in un luogo privato o pubblico, non vi sono testimoni o non vi è coscienza dell’accaduto tra i presenti, poco o nulla è registrato. La dispersione dell’avvenuto, e dei segni che può aver prodotto, è il motivo stesso della loro entrata in campo: vengono per non essere visti, vanno via senza provare dolore, quindi non sono accaduti.

A Castiglioncello, con Claudio Morganti ed il gruppo di partecipanti al seminario, si è tentato di conversare guardando delle immagini e dei manufatti riferiti a singole azioni degli insiemi.

[25] “Il 12 dicembre del 1969, alle 16.37, le luci dei lampioni di Milano ebbero un tremito e si abbassarono, per alcuni istanti fu quasi notte. Un cielo grigio e pesante di nebbia continuò a opprimere Milano fino al giorno 15.” La testimonianza sulla vibrazione delle luci pubbliche per l’esplosione avvenuta nella Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana, è di Elda Necchi, in Licia Pinelli, Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Milano, Feltrinelli, 2009 (prima edizione Milano, Mondadori, 1982.)

Alcune azioni per Quattro secondi, hanno avuto origine da guasti occasionali dell’illuminazione stradale e di edifici privati, la loro durata è dipesa dai tempi di riparazione del disturbo. In qualche occasione, necessitando il buio o una diversa illuminazione degli spazi stradali, il guasto è stato provocato.

 

[26] Appunti per Defigura, II edizione, Macerata, ottobre 2014.

[27] Appunti per due giorni di incontro al Teatro di Leo, Bologna, aprile 2002.

[28] Appunti per Stazione Topolò, Topolò (Grimacco), luglio 1996.

[29] Emilio Villa, senza data, in Emilio Villa poeta e scrittore, catalogo della mostra (Reggio Emilia, 23 febbraio - 6 aprile 2008), a cura di Claudio Parmigiani, Milano, Mazzotta, 2008.

[30] Che porta esclusivamente fiori femminili o fiori maschili, a differenza delle piante monoiche. L’uno o l’altro genere è definito alla prima fioritura della pianta, per dimensioni e forma del fiore. L’araucaria vicino casa ha fiori maschili ed il suo seme è alato, come accade di rado.

[31] Da una espressione di Samuel Beckett riferita alla scrittura, in S. Beckett, Lettere, 1929-1940, Milano, Adelphi, 2018.

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