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Renato Gabrielli

Prendersi una pausa

 

Il tempo della drammaturgia[1]

​

 

 

Primo tempo

 

Iniziare con una citazione? No. Non ci pensavo proprio. Lo giuro.

E invece:

“Scrivere è, in qualche modo, convivere con un tempo che ci si propone in frammenti di tempo, in fra-tempi, con parole che, mentre definiscono un’immagine o un’idea, sono prese da una sorta di tentazione al disfacimento, come se l’essere non riuscisse mai a coincidere con se stesso e si avvertisse al tempo stesso come mancanza, come vuoto e come opacità.”[2]

Ma adesso che, irrevocabilmente, l’ho citato, quanto ha scritto Franco Rella mi basta e avanza, esprime la mia stessa esperienza del tempo durante la scrittura con parole di trasparente pienezza. Cosa potrei aggiungere?

Pausa. Si potrebbe finire qui. Certo, chi ascolta trova improbabile che si finisca qui, dato che abbiamo appena cominciato. Allora prolungo la pausa, affinché a qualcuno baleni l’idea che forse, in effetti, anche se è improbabile, finiamo qui… No, no, è impossibile. Comunque.

Continua la pausa.

Anche perché meditare la densa citazione richiede tempo.

Dunque la ripeto.

Poi un’altra pausa. Più breve – e all’improvviso.

Cambio argomento.

O magari torno sullo stesso,  ma all’incontrario.

Cioè, per meglio dire: provo a invertire i termini del discorso, parlando di come la scrittura, in particolare quella teatrale, manipola il tempo: quello narrato o rappresentato. Nel parlarne, continuo a pormi delle domande, le domande che mi pongo quando scrivo. Tra una domanda e l’altra, per dare il tempo a eventuali risposte o domande al quadrato, lascerò sempre una –

Ormai si è capito.

Domanda numero uno. Esiste, nel rapporto col tempo, e anche lasciando stare il rapporto col tempo, una specificità della scrittura per il teatro?

Salto la pausa e passo subito alla

Domanda numero due. Se sì, in che cosa consiste tale specificità, e, domanda numero tre, vale la pena di difenderla, tutelarla, rivendicarla?

Segue divagazione non troppo divagante, autobiografica ma non sul privato.

Di questi tempi, da un bel po’ di tempo, la cosiddetta nuova drammaturgia va piuttosto di moda. Se ne parla e se ne scrive. Se ne rivendica, in modo un po’ generico, la necessità o l’importanza. Non era così quando ho iniziato a lavorare in teatro, verso la fine degli anni ottanta. Dopo essermi diplomato attore alla Civica di Milano, recitavo e scrivevo testi per un gruppo informale di ex compagni di scuola; il regista era Mauricio Paroni de Castro. Ci produceva il C.R.T., allora punto di riferimento, se non altro perché ente ben finanziato, per quello che si definiva “teatro di ricerca”. Sebbene attingessero per molti aspetti a un lavoro collettivo, i testi dei nostri primi spettacoli esprimevano uno stile di scrittura personale – il mio giovanile, suppongo – e contenevano linee narrative comprensibili. In quell’ambiente e contesto, ciò ci ha reso un po’ sospetti; quasi facessimo, involontariamente, con ingenuità da ventenni, un’operazione reazionaria. Retrospettivamente la cosa mi pare un po’ buffa, mi genera un vago senso d’irrealtà. Era già in corso un cambio radicale di tendenza, che sarebbe divenuto evidente negli anni novanta con l’affermazione dell’industria anglosassone del new writing; la nuova legittimità data in Italia alla scrittura d’autore soprattutto da parte di Franco Quadri attraverso il Premio Riccione /Tondelli; il diffondersi sui palcoscenici delle più svariate forme di “teatro di narrazione”. Ma prima che l’autobiografia si trasformi stabilmente in bigino l’interrompo per una nuova

Pausa

che funge, in questo caso, da ellissi temporale e ci riporta con un balzo di circa vent’anni in avanti qui, ora, a un presente, teatrale e non solo, in cui mi pare si sia radicato un vero e proprio culto della narrazione. Se dovessi azzardare un’interpretazione socio-politica, e sarebbe davvero un azzardo, dato che di società e politica ne so pochissimo, tanto quanto quelli che ne parlano in tivù – ma sì, azzardiamo: tramontate le ideologie e gli ideali di progresso e trasformazione, si tende ad affidare senso e prospettiva alla costruzione di “storie”, di “narrazioni”, solitamente esemplari e capaci di creare identificazione emotiva. Lo storytelling dilagante nella comunicazione aziendale e politica è ben più che una sofisticata variante contemporanea della buona vecchia réclame: rappresenta un forte elemento di continuità con la cosiddetta cultura alta. L’industria culturale democratica produce, dentro e attorno ai libri, ai monumenti, ai musei, alle mostre, alle performance musicali e teatrali, ai film, alle serie televisive, un’enormità di storie, funzionali a intrattenerci e, forse, a orientare la nostra lettura della realtà; a contrastare la barbarie populista che avanza, l’offensiva planetaria degl’incolti, peraltro anch’essi orientati da narrazioni, ma rozze e ingannevoli, miriadi di fake news orchestrate in un’epica malvagia. Dal racconto di un’ora di coda in tangenziale in un post su Facebook al racconto del percorso degli ingredienti sul menu di un ristorante bio; dal racconto della mia vita professionale, che trasforma in dolci avvallamenti le voragini nel mio CV, al racconto delle grandi riforme venture, che culla e confonde un Paese depredato: racconti, racconti, racconti…

Però!

Pausa di pensiero, che tipicamente segue il balenare di un’intuizione.

Quanto tempo ci vuole perché l’intuizione si trasformi, venga articolata nel linguaggio, diventi comunicabile con parole?

Nella vita quotidiana, ci può volere molto tempo.

E in teatro?

In teatro, di solito, si abbrevia. In teatro, si sa, le pause sembrano più lunghe.

Per non parlare dei silenzi.

Certi silenzi.

Soprattutto quando ti aspetti che qualcuno debba parlare.

Sembra che ci sia qualcosa di sbagliato. Però.

 

Però – dicevamo – a pensarci bene, non è mica male, ‘sta voga dei racconti, ‘sta narratocrazia, soprattutto per noi, che lavoriamo nel cosiddetto settore culturale e con le storie ci abbiamo una certa confidenza per deformazione professionale, o professione deforme. C’è un’opportunità – non dico economica, da quel punto di vista la situazione è quella che è, e comunque dipende, non si sa mai… C’è l’opportunità, molto più ghiotta, di essere o sentirsi importanti. Con tale prospettiva, la scrittura per il teatro non ha motivo di ritenersi marginale; e ha le sue ragioni Stefano Massini quando afferma:

 “Il drammaturgo non è colui che opera in una ristretta nicchia, in un ambito espressivo contraddistinto da un complesso di inferiorità nei confronti del cinema e della letteratura. […] La divisione, prima molto forte, fra stile giornalistico, stile narrativo, romanzesco, letterario, tra documentario, saggio, testo teatrale e poesia è venuta meno. Oggi noi dobbiamo dedicarci a una narrazione che prescinda dai compartimenti stagni: esiste, semplicemente, la narrazione del reale.”[3]

Che la caduta di antiche barriere formali fornisca un'opportunità ai drammaturghi dei nostri giorni è innegabile. Personalmente non ho alcuna nostalgia per i compartimenti stagni in cui venivano rigidamente separati generi e stili. Eppure, se ripenso in primo luogo alla mia esperienza di spettatore, trovo che nel grande teatro, quello che vale la pena ricordare, ci sia uno scarto, una qualità irriducibile a cinema o narrativa, che si manifesta attraverso la presenza dell'attore e una scrittura che in rapporto a tale presenza si riveli vitale e necessaria. Sarà un mio limite, ma degli spettacoli che più mi colpiscono non ricordo quasi mai gli elementi narrativi. E nutro una certa diffidenza nei confronti della narrazione del reale; a meno che non intendiamo il reale, la realtà, in chiave per niente semplice, parecchio problematica, come suggerisce Rafael Spregelburd:

“Il teatro è molto più libero che in altre epoche. Può associarsi a qualsiasi suo “competitor sul mercato” (cinema, circo, danza, letteratura, televisione) e saccheggiarlo come un gitano errante.

Logicamente, la relazione tra teatro e realtà è anche un poco paradossale. Il meglio del teatro non cerca ormai di copiare la realtà per affermare la propria verosimiglianza. Questo teatro si è reso conto che la realtà è una manipolazione stilistica, un’apparizione di segni organizzati, che rispetta i requisiti di un sistema determinato, il quale pretende di rendersi eterno. La realtà (la costruzione del potere, dello status quo) ci si presenta come qualcosa che cerca di somigliare sempre a sé stessa, dove qualsivoglia cesura sarebbe non necessaria. Così, ci sono creatori che proclamano a viva voce che ciò che bisogna fare è dimostrare che questa non può essere la realtà, e reclamano alle loro opere (empie, violente e inattese) lo statuto di “reali”; mentre pretendono di affermare che ciò che accade per le strade è totalmente fittizio.”[4]

Pausa, adesso.

Prendiamoci un tempo -

Non solo per rileggerci le ultime citazioni, ma anche per chiederci:

Ma il tempo?

Cosa c'entra il tempo?

Perché in fondo è questo il tema generale e non è il caso di allontanarsene troppo, no?

Sì. Ma confido che in effetti non ci stiamo allontanando troppo. Perché se coltiviamo l'ambizione di praticare, tramite il teatro, delle cesure in quella realtà sempre somigliante a se stessa cui si riferisce Spregelburd, ci troviamo di fronte al compito di scardinare la percezione lineare, quotidiana del tempo; di creare, grazie alla qualità del rapporto tra chi agisce e chi guarda, fecondi cortocircuiti temporali, stati di sospensione dal flusso ordinario degli eventi.

Facile a dirsi, direte, e già detto meglio di così. Il problema è come  affrontare un compito del genere, così sfuggente e discutibile quanto a valutazione degli esiti. C'è qualcosa - un metodo, una procedura, un espediente, un rito - che possa garantirci successo (un effimero successo, peraltro) in quest'impresa?

No, direi di no.

Né la scrittura preventiva, né la scrittura consuntiva, né l'improvvisazione, né la premeditazione, né il training ascetico estremo né l'ubriachezza liberatoria ci garantiscono nulla. Tuttavia, ciascuno a suo modo e con il suo stile, possiamo provare a predisporre il campo, a creare delle condizioni per cui quest'elusivo, vagamente mistico, mai religioso, forse magico, comunque benedetto "cortocircuito" avvenga. A tale scopo, l’alleanza tra chi scrive e chi va in scena mi è sempre parsa fondamentale.

Da giovane ho studiato recitazione soprattutto per imparare a scrivere. Già allora spontaneamente cercavo forme d'alleanza con altri attori; invecchiando, e non recitando più, ho formato alleanze via via con maggiore consapevolezza, in modalità varie e spesso dettate da circostanze esterne. Dopotutto, la scrittura per il teatro è anche un mestiere e chi pratica un mestiere deve anche sapersi adattare. Virtuosamente, nei migliori dei casi. Negli altri casi...

Ma non pensiamoci, agli altri casi. Mi sembra più utile portare qui degli esempi che ritengo positivi. Perciò vorrei parlarvi della mia alleanza con un compagno di studi alla "Paolo Grassi" che, diversamente da me, ha continuato fino a oggi a fare l'attore, Massimiliano Speziani. Nell'ultima quindicina d'anni abbiamo collaborato parecchie volte, ma non è l'aspetto quantitativo quello che mi fa usare il termine "alleanza". Massimiliano è un attore che non smette mai di indagare, di interrogarsi sul senso della sua pratica di scena, sul rapporto con la scrittura. E dunque le occasioni di lavoro comune, rapido o approfondito a seconda delle circostanze, sono anche stimoli a continuare, con dei riscontri concreti, il nostro dialogo su come si generi del teatro vitale e necessario.

Nel 2010, insieme a Luigi Mattiazzi, spacemaker e brillante creatore di neologismi (come per l'appunto spacemaker - futuristica alternativa a "scenografo", termine che non gli piace), ci siamo concessi il lusso di costruire, in successive residenze al Teatro La Cucina di Milano, uno spettacolo a partire da sequenze d'azioni fisiche proposte da Massimiliano, senza una narrazione preventiva, una traccia drammaturgica già definita. Ho così scritto il testo di Questi amati orrori per stratificazioni successive intorno a un nucleo vuoto di storie, a un'interrogazione sulla compresenza attore/spettatore, sviluppata in una sorta di bolla spazio-temporale. Abbiamo più volte ripreso questo lavoro, il cui copione è in continua, per quanto all'apparenza microscopica, evoluzione. Nelle zone in cui si prevede una controllata interazione con il pubblico, Massimiliano ha sempre un adeguato margine di variazione e improvvisazione; ma le tappe del suo percorso rimangono fisse.

Dalla versione del testo pubblicata su "Hystrio", vorrei proporvi la lettura di un frammento  che esplicitamente tocca alcuni dei temi che stiamo trattando. Massimiliano è in scena da circa un quarto d'ora - se possiamo definire scena un ring di panchine circondato da spettatori lungo tre lati. Sono già successe cose piuttosto interessanti, davvero impossibili da riassumere. Si sono appena create le condizioni per una

Pausa

E da quella

Pausa

ecco che scaturisce un dubbio atroce:

 “Ma si capisce?

Si capisce la storia?

Pensa l’attore

Ed è un po’ preoccupato

Ma si capisce o no?

Diciamo pure leggermente in ansia

Perché sa fin dall’inizio che non c’è nessuna storia, e dunque nulla da capire, e a lui va benissimo

Ma agli altri?

In che senso?, quali altri?

Diciamo a un altro, che lo osserva

Da qui

Da qui

Oppure da qui

Ecco, c’è un altro essere umano che osserva l’attore e magari si aspetta da lui una storia

O un messaggio

Ma no, macché storia o messaggio, meglio una canzone

…………………………………….

O una gag? Preferite una gag?

……………………………………

Ma l’attore non fa nulla di tutto questo, fa qualcosa di più importante

Si mette nei panni dell’altro

Dunque si osserva

E si trova un po’ fermo, anzi diciamo pure bloccato, in ansia, bloccato dall’ansia di essere osservato

La mia testa

E’ grossa, non è vero?

Sì, sì, è troppo grossa rispetto al resto del corpo, è questo il mio problema, da sempre

Infatti una volta quand’ero ragazzo un dentista che prima di incontrarmi aveva visto solo la mia radiografia mascellare mi ha detto che era convinto che io fossi alto uno e novanta, uno e novanta!, un teschio da uno e novanta su uno scheletro di uno e sessanta!

Uno e sessantadue, sessantatré

Chiaramente è uno squilibrio, che poi si ripercuote su tutto il resto

Propagando deformità

Per esempio questo

Lo vogliamo chiamare piede, questo?

O piuttosto chiatta, zattera, piattaforma

Per sollevare un piede del genere bisogna sviluppare una muscolatura abnorme

Tipo ‘sto polpaccio

Un polpaccio così è roba da terzino, mica da attore

E le cosce?

E il torso! Il torso –

……………………………..

Ma perché mi guardate tutti il naso?

Lo so che non è un bel naso

E non è neppure brutto

Ma almeno se fosse brutto esprimerebbe qualcosa e invece è banale, banale, banale

Serve solo a far passare l’aria

Che poi esce in forma di voce

Ma sarà una voce, questa?

Oltre a non dire niente d’interessante

E’ piatta

E’ fessa

Ma chissà perché faccio l’attore?

Pensa l’attore

E chissà perché continuo a guardare questo attore che non fa niente?

Pensa quell’altro, che lo osserva

Da qui

Da qui

Oppure da qui

Ma non c’è niente da fare, devono andare avanti, non possono fare a meno l’uno dell’altro, è la vita, diciamo pure, questo andare avanti insieme senza una storia, ma col desiderio o la nostalgia o l’oblio ostinato di una storia, e allora avanti –“[5]

Ho scelto di leggervi questo frammento non perché abbia in sé una particolare valenza estetica (e in effetti, senza le azioni sceniche di Massimiliano ne ha ben poca), ma perché tocca esplicitamente un nodo cruciale per il teatro che ci interessa. I monologhi, lo sappiamo, vengono usualmente smerciati come pezzi di bravura. E di attori bravi in Italia, sia detto senza ironia, c’è una certa abbondanza. Ma il “Lui” che agisce in Questi amati orrori, nelle nostre intenzioni, non sfoggia la sua bravura, né peraltro la nasconde; si spinge piuttosto ai limiti delle proprie possibilità comunicative, in una serie di tentativi di costruzione di senso votati, sin dal principio, al fallimento. Da questo punto di vista, sento una consonanza del nostro lavoro con quanto affermato proprio qui da Claudio Morganti:

“Dunque, cosa è preferibile fare del nostro corpo sulla scena? Simulare a tutti i costi un’assenza d’attrito (far finta che l’attrito non esiste) o giocare con le forze che si oppongono, con i propri limiti, compreso il sublime limite dato dell’idea del recitare, esponendo se stessi alle prese con il proprio inevitabile fallire?

Il nostro limite è proprio là dove si dovrebbe stare.

E aggirarsi in territorio ostile confliggendo con ciò che ancora non si conosce significa necessariamente dover “improvvisare”.[6]

Parole, queste, che mi hanno ricordato una nota frase di Samuel Beckett:

“[…] essere artista è fallire, così come nessun altro ha il coraggio di fallire, il fallimento è il mondo dell’artista, e sfuggirlo equivale alla diserzione, ad arti e mestieri, a buona amministrazione casalinga, a vivere.”[7]

Una frase, questa, che oltre a tutti i suoi meriti intrinseci, ha anche il gran pregio di starci proprio bene, prima di una

PAUSA LUNGA

Durante la pausa lunga, chiedo alle persone presenti di leggersi almeno qualche scena del mio testo La donna che legge.

Ciò eviterà a me l’incombenza, a loro la noia d’un riassunto proprio nel bel mezzo del

 

Secondo tempo

 

“A play doesn’t have to function within a genre, and that is one of the virtues of the theatre. But, in all plays, the plot is expressed through a structure, in which the narrative is organised into segments of space and time. Like emplotment, structure is not just a convenient way of organising material, but is a conveyor of meaning.”[8]

Ripartiamo in inglese, per darci un certo tono.

E ci serviamo delle lucide parole del drammaturgo britannico David Edgar per mettere subito a fuoco il tema principale di questo secondo tempo del nostro incontro: la struttura come portatrice di significato. Parleremo dunque di drammaturgia preventiva; e di come gli scrittori per il teatro diano una struttura ai loro copioni, organizzando una o più storie in segmenti di spazio e tempo. E del processo che, sotto l’influsso di narrativa e cinema, ha portato il teatro a scardinare la linearità temporale degli intrecci, dai primi flash-forward di J.B. Priestley (Il tempo e la famiglia Conway è del 1937) a Tradimenti di Pinter (1978), fino alle più ardite e talora contorte sperimentazioni degli ultimi decenni. Possiamo scorgere un motivo, un senso in quest’evoluzione, che vada al di là del puro gusto per il virtuosismo strutturale e l’inevitabile contaminazione con altri media?

Sentiamo ancora Edgar:

“There are a number of reasons why contemporary playwrights – particularly contemporary female playwrights – disrupt conventional, linear time. One of them is a paradox. For thirty years, cultural critics have been proclaiming the decline – if not the death – of traditional linear narrative as a bearer of meaning. In the same period, what’s happened in the actual culture is not a rejection or even a problematisation of narrative but a Gadarene rush towards it. In the films, plays and novels of the ‘70s, narrative is one of the number of means by which writers communicate meaning (along with character, argument and metaphor). By the ‘90s, the increasing dominance in the electronic media of genre (which, as we’ve established, means a kind of story) led to narrative being the sole bearer of meaning. […] In addition to everything else they do, plays which disrupt or dislocate time mount a challenge to the overwhelming dominance of narrative in popular drama, and contribute to an extensive canon of work […] of which the subject is the reliability or otherwise of narrative itself.”[9]

Quanto possiamo fidarci delle storie che ci vengono raccontate, o perfino di quelle che raccontiamo a noi stessi? La drammaturgia più viva degli ultimi decenni insiste in questa domanda con infinite variazioni. Nel suo saggio Edgar fa riferimento ad autori anglosassoni del calibro di Martin Crimp e Caryl Churchill. Allargando la visuale, è impossibile non pensare a Rafael Spregelburd o a Juan Mayorga. Ma l’elenco sarebbe troppo lungo e sempre incompleto. Ciò che ora conta è indagare come tale dubbio radicale sull’affidabilità delle storie porti sovente chi scrive a proporre sulla scena varie forme distorsive della percezione lineare del tempo. Mi piacerebbe intervistare Mayorga o la Churchill in proposito, ma, data la loro assenza, mi devo accontentare di me che son qui; di testimoniare dall’interno di un processo di scrittura l’emergere dell’esigenza di certe scelte strutturali.

Ogni tanto – sempre più di rado, a dire il vero – lavoro su copioni puramente a tavolino, non commissionati da alcuno né generati da un progetto condiviso, da un’ipotesi concreta di spettacolo. E’ questo il caso di La donna che legge. Qualche anno fa  mi sono imbattuto nel libretto di una studiosa di letteratura, Francesca Serra: Le brave ragazze non leggono romanzi. Le acute riflessioni della Serra intorno alla figura della donna lettrice sotto lo sguardo di scrittori e pittori maschi mi hanno ricondotto a “Nausicaa”, un capitolo dell’Ulisse di Joyce che, quand’ero giovane, mi aveva molto colpito. La spiaggia su cui legge Gerty MacDowell, osservata a distanza dal signor Bloom, si è trasformata in quella a me fin troppo nota di una città di provincia, sull’Adriatico. E da lì in poi sono stato come investito da una marea di associazioni mentali, immagini, frammenti di future battute, embrioni di personaggio. E mi sono inventato, sì, una storia, per dare forma sulla scena a quella materia ancora magmatica. La si racconta in poche righe. Non ve la riassumo, dato che durante la

pausa lunga

avrete perlomeno sfogliato il copione. E se l’avete fatto, avete di certo potuto notare come la storia in sé sia piuttosto implausibile. O peggio. Tessuta in un plot lineare, con pretese di realismo, risulterebbe forzata, o metaforica a forza, magari inutilmente provocatoria. Ho invece provato a sottoporla a un processo critico di scomposizione e ricomposizione, alternando i punti di vista dei tre protagonisti, attraverso “sequenze” in cui coabitano, litigiosamente, tempi e spazi eterogenei, cangianti.

Questa la didascalia iniziale:

“Racconto teatrale in dodici sequenze

Tre attori: A, B e C.

Ciascuno di loro a tratti porta avanti il racconto, a tratti dà corpo e voce al suo personaggio.

A – Vent’anni, più o meno. Interpreta Giada, la donna che legge.

B – Quarant’anni, più o meno. Interpreta Federica, la donna avvocato.

C – Cinquant’anni e oltre. Interpreta Mirco, il cliente.

In una città di provincia, sul mare, ai giorni nostri. La suddivisione in sequenze segna passaggi di tempo e/o di spazio all’interno del racconto, ma non deve determinare alcun tipo di cesura nell’allestimento scenico e nell’azione teatrale.”[10]

Il confine tra la realtà della vicenda evocata e le proiezioni dei desideri dei personaggi è continuamente messo in questione dall’andamento spazio/temporale. Ho cercato così, tra l’altro, di rendere percepibile quel clima di sospensione, attesa, malinconico ristagno da cui, nella mia immaginazione, ero partito e che (forse) poteva trovare risonanza nella percezione, da parte del pubblico, dell’Italia stagnante dei nostri giorni. Come parecchi altri drammaturghi contemporanei, nella Donna che legge ho anche sistematicamente praticato un’alternanza tra modo narrativo e modo drammatico. I continui slittamenti tra un punto di vista e l’altro, dentro e fuori dall’azione, cercano di generare un contrasto, non un appiattimento tra dramma e racconto. Insomma, l’obiettivo è esattamente opposto a quel che vuole lo storytelling ipnotico-impegnato…

Mi fermo per qualche istante a raccogliere le idee

Perché la precisazione che segue è della massima importanza

Almeno per me:

A mio avviso, la narrazione in teatro non deve servire a commuovere o incantare, ma, contrapposta alla rappresentazione, deve svegliare, riportare al tempo presente. Al rapporto attore/spettatore. Di cui vanno esplorate, va da sé, le potenzialità più sottili, non quelle banalmente interattive.

Così scriveva in un saggio del 1993 José Sanchis Sinisterra, autore teatrale e  illuminante teorico della “narraturgia”:

“Se partiamo dal principio secondo cui ciò che è essenziale, specifico del fatto teatrale è l’incontro tra attori e spettatori, vale a dire la simultaneità spaziale e temporale di un collettivo di interpreti e un collettivo di recettori; se ammettiamo che la co-presenza di entrambi è la condizione dei complicati processi dell’identificazione e della partecipazione che si sviluppano in tale incontro, quindi l’unica possibilità affinché il teatro continui a esistere, – e in ogni modo continuerà a esistere, facciamo quel che facciamo o non facciamo quel che facciamo – è incrementare queste due presenze. Creare le condizioni per intensificare la presenza, l’incandescenza dell’attore in scena, ma anche la presenza del ricettore, l’esistenza partecipativa dello spettatore in sala, durante questo fugace incontro che la rappresentazione instaura. […]  La moderazione e il denudamento delle circostanze in cui si produce l’incontro tra attori e spettatori contribuiscono, a mio parere, a intensificare i fattori di partecipazione e cooperazione.”[11]

Sinisterra poi delineava, in termini su cui è tuttora interessante confrontarsi, le caratteristiche di una “teatralità minore”:

  • concentrazione tematica

  • contrazione della “fabula”

  • “mutilazione” dei personaggi

  • condensazione della parola drammatica

  • attenuazione di ciò che è esplicito

  • riduzione del luogo teatrale

  • non quantificazione della nozione di pubblico.

Pausa eventuale. Eventualmente interattiva. Ovvero:

Se c’è tempo e interessa, possiamo leggere insieme le brevi delucidazioni su queste caratteristiche scritte da Sinisterra stesso.

C’è tempo?

Interessa?

In caso contrario, soffermiamoci solo sull’ultima:

“Potremmo arrivare, come ultima cosa, ad ammettere come fattore positivo, non come male inevitabile, la non quantificazione del pubblico, l’accettazione del carattere minoritario – ma non elitario – dell’evento teatrale. E questo senza nessun tipo di complesso e di cattiva coscienza, visto che, oltre un determinato numero di spettatori, l’individuo scompare e si dissolve nella massa, e si perde con esso la dimensione di ciò che è di gruppo o collettivo, in cui l’incontro teatrale fonda le sue radici. Non c’è, naturalmente, una cifra magica che permetta di chiarire il numero ideale di spettatori, poiché tutto dipende dalle proporzioni spaziali e dalla natura dei codici scenici, però sono del parere che questa relativizzazione quantitativa del pubblico sia un fattore importante per la definizione di teatralità minore che vi propongo. […]  In definitiva, credo che questa scelta Per una teatralità minore restituisca allo spettatore la sua funzione creativa, combattendo la tendenza alla passività del cittadino che le nostre società “democratiche” stanno velocemente alimentando. Restituire allo spettatore – al cittadino – la lucidità, la creatività, la partecipazione, l’intelligenza… e anche l’innocenza, mi sembra un compito politico importante per il teatro del domani.”[12]

A più di due decenni da quando sono state scritte queste righe, per quel teatro del domani divenuto dell’oggi ha ancora senso porsi un compito politico così ambizioso? Riusciamo ancora a concepirlo, e soprattutto a sentircene all’altezza?

Per quanto mi riguarda, devo confessare una sorta di scissione. O di forzata convivenza del sì e del no nella mia stessa testa, senza possibile compromesso. Se mi pongo a margine del processo artistico, a lato anche di me stesso mentre lavoro per la scena, il mio sì è deciso. Questo compito mi pare tanto più necessario quanto più arduo e misconosciuto. E non mi spaventa neppure chiamarlo politico, nel senso più pieno. D’altra parte, quando sono immerso nella scrittura: no – penso, con altrettanta nettezza. Non posso permettermi alcun compito. I compiti politici, poi, sono una condanna a morte. Perfino le vaghe intenzioni politiche possono risultare micidiali. In generale, mentre scrivo, cerco di non avere intenzioni. Spero di aver preparato bene il terreno, in modo da potermi permettere la libertà dalle intenzioni.

Ci riesco di rado, solo nei momenti migliori, quelli da cui scaturiscono quelle pagine o righe che non m’annoia rileggere tempo dopo. In quei momenti, compiti e intenzioni fanno spazio a brevi, minime, laiche rivelazioni.

I pensieri si concedono una

Pausa.

Il giovane narratore di uno dei bellissimi romanzi di Juan Carlos Onetti, Raccattacadaveri, ogni notte visita di nascosto la vedova di suo fratello, di cui è innamorato, per ascoltarla, consolarla; la donna sta scivolando nella pazzia. Ed ecco, mentre si avvia verso uno degli ultimi appuntamenti:

“Attraverso il giardino mordendo la pipa spenta, senza fare rumore, sfiorando con prudenza la notte con le maniche vuote dell’impermeabile, scoprendo che i pensieri non nascono da noi, ma stanno lì, da qualche parte fuori dalle nostre teste, liberi e duri, e che si introducono in noi per essere pensati e ci lasciano quando ne hanno abbastanza, capricciosi e invariati.”[13]

Ecco. Mi piacciono a tal punto, queste parole. E poi, sono di Onetti. Mi piacerebbe finire qua. Senonché c’è la maledizione del finale: quel pensiero maledetto, la convinzione che perché un finale sia un bel finale non basta che sia bello e basta. L’idea che nel finale ci sia la chiave di tutto il resto – che, come si suol dire, getti una luce retrospettiva, eccetera… Mica vero.

Però ormai è troppo tardi. Onetti ce lo siamo mezzo scordato. Ho perso il tempo giusto, continuando a parlare.

E allora? Come facciamo?

Si potrebbe finire non finendo, ma per quello ci vuole fede. Basterebbe un decimo della fede che, riguardo agli incipit, animava Laurence Sterne:

“[…] Dei vari modi di incominciare un libro in uso oggi in tutto il mondo conosciuto, confido che il mio modo di farlo sia il migliore ----- Sono certo che è il più religioso ------ perché incomincio a scrivere la prima frase ----- e mi affido a Dio Onnipotente per la seconda.”[14]

 

Ma io non ce l’ho, la fede, allora rileggo, scorro all’indietro le pagine di questa relazione, alla ricerca d’una linea, tortuosa o retta, che mi faccia arrivare al punto.

 

Mi rendo conto, così, che è diventata qualcosa di molto diverso da quel che avevo progettato all’inizio: non dimostra nulla e a tratti va fuori tema. Ma ora che ne verifico l’esito fallimentare non posso non sperare che il fallimento si riveli fecondo. Che non si trasmetta il troppo pieno d’affermazioni presuntuose, ma il dubbio, lo slittamento, il controtempo, lo stridore di tanti piccoli vuoti involontari. Che nella memoria tra di noi rimanga questa

 

Pausa                                                                                         

 

anziché i saluti che la seguiranno.

Buon proseguimento.

 

 

 

 

 

 

[1] L’incontro con Renato Gabrielli si è svolto al Castello Pasquini il 4 e il 5 marzo 2017

[2] Franco Rella, Immagini del tempo, Bompiani, Milano, 2016, pagg. 305-6

[3] “Il teatro, tra tempo e narrazione del reale”, conversazione con Stefano Massini, a cura di Eleonora Vasta, in: Programma di sala di Credoinunsolodio di Stefano Massini, Piccolo Teatro di Milano, 2015, pag. 10.

[4] Rafael Spregelburd, Il teatro, la vita e altre catastrofi, Bulzoni, Roma, 2014, pag.80.

[5] Renato Gabrielli, Questi amati orrori, in “Hystrio”, n.4/2010, pag.102-3.

[6] Claudio Morganti, “Tempo discontinuo”, in: Tempo – Dieci variazioni sul tema, vol. I, ETS, Pisa, 2017, pag.76.

[7] Samuel Beckett, Il “fallimento” di Bram Van Velde, in “L’Europa letteraria” n. 8, aprile 1961, pag. 204.

[8] David Edgar, How plays work, Nick Hern Books, London, 2009, pag.99.

“Un testo teatrale non ha bisogno di appartenere a un genere, per funzionare, e questa è una delle virtù del teatro. Ma in ogni testo la trama viene espressa tramite una struttura, in cui la storia è organizzata in frammenti di spazio e tempo. La struttura, come la costruzione della trama, non è solo un utile modo di organizzare materiale, ma è portatrice di significato.”

[9] David Edgar, How plays work, Nick Hern Books, London, 2009, pag.114-5.

“C’è una quantità di ragioni per cui i drammaturghi contemporanei – in particolare le drammaturghe – spezzano il tempo convenzionale, lineare. Una di queste ragioni è un paradosso. Per trent’anni i critici appartenenti ai cultural studies hanno proclamato il declino – se non la morte – della tradizionale narrazione lineare come portatrice di significato. Nello stesso periodo, nella cultura vera e propria la narrazione non è stata rifiutata e nemmeno resa problematica, ma anzi ci si è gettati dentro a capofitto. Nei film, nelle pièces e nei romanzi degli anni settanta, la storia è uno dei vari mezzi attraverso i quali gli scrittori comunicano significato (insieme a personaggi, argomentazioni, metafore). Entro gli anni novanta, il crescente predominio nei media elettronici dei generi (i quali, come abbiamo stabilito, significano tipi di storia) ha fatto sì che la narrazione sia diventata l’unica portatrice di significato. […] Oltre a tutto il resto, i testi teatrali che spezzano o dislocano il tempo lanciano una sfida al predominio schiacciante della narrazione nella drammaturgia popolare, contribuendo alla formazione di un ampio corpus di lavori […] il cui tema è la credibilità, o meno, della narrazione stessa.”

[10] Renato Gabrielli, La donna che legge, Cue Press, Imola, 2015, pag. 11.

[11] José Sanchis Sinisterra, La scena senza limiti, edizioni corsare, Perugia, 2003,  pagg.12-13.

[12] José Sanchis Sinisterra, La scena senza limiti, cit., pagg. 17-18.

[13] Juan Carlos Onetti, Raccattacadaveri, SUR, Roma, 2014, pag. 208.

[14] [14] Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, Mondadori, Milano, 1992, pag. 520.

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