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Alessandra Cristiani

 The intensity of nothingness[1]

L’istante prima di ogni accadere

​

 

Il documento Masaki Iwana Buto Workshop. ‘The Intensity of Emptiness, del 14 aprile 2000, si rifà ad un altro scritto precedente, The Intensity of Nothingness del 31 dicembre 1999, presentato come programma di sala in occasione della partecipazione di Iwana a un festival di danza tenuto a Tokyo. Fondamentalmente il contenuto racchiuso nel riquadro, nel testo riportato, non varia rispetto all’altro documento, se non per una scelta diversa di alcune parole e nel voler spiegare o semplificare maggiormente dei concetti, altrimenti troppo ermetici. La sostituzione più delicata si è verificata tra i sostantivi vuoto /emptiness, e nulla /nothingness, dovuta principalmente a motivazioni di ordine culturale e filosofico. Sostituzione avvenuta per avvicinarsi alla rappresentazione di una dimensione altrimenti ineffabile, che è appunto quella del vuoto o del nulla, categorie che non si escludono. Il nulla include in sé il vuoto e viceversa. La scelta definitiva per il primo termine è stata dettata da un maggiore potere evocativo della parola, capace di far avvertire le dimensioni dell’astratto e del concreto insieme. Il vuoto è il nulla dal punto di vista spaziale, il nulla è il vuoto dal punto di vista temporale. Quest’ultima ha un raggio d’azione dell’immaginario, molto più vasto:

In antitesi al vuoto che si riferisce solo a ciò che è fisico, il Nulla Zen comprende anche l’intero universo psichico. In questo senso si può affermare che è qualcosa di veramente onnipresente... Non solo possiede al pari del vuoto l’assenza di limiti in senso spaziale, ma anche l’infinitudine temporale.[2]

Allo stesso modo accoglie il puro e l’impuro, tratta alla pari ciò che è elevato e ciò che è prigioniero della bassezza, va incontro al bene e al male, considera uguali il vero e il falso, acconsente che sacro e profano coesistano insieme, non prende nulla e non rifiuta nulla, esattamente come il vuoto.[3]

Nel testo riportato il vuoto è indicato come uno spazio fisico: emptiness (the beginning of whole which have been allowed in the universe). Al di là del riconoscere l’identità tra il vuoto e il nulla come lo spazio e il tempo di una dimensione, nei brani citati si prende in considerazione un aspetto della filosofia buddhista che rivela una sensibilità affine a quella ricercata per la danza del buto bianco. Mi riferisco all’aspetto dell’ambiguità come il carattere umano indagato dal danzatore Masaki Iwana. Un’ambiguità esatta nella sua indeterminatezza, completa nel convogliare tutti gli aspetti anche contrastanti della natura dell’essere umano. In questa prospettiva il vuoto, il nulla, rappresentano una consapevolezza particolare di fronte alla quale ricondurre ogni turbolenza vissuta, ogni incertezza artistica, con la quale confrontarsi e rigenerarsi:

E’ questo continuo scavalcare se stessi, questo continuo porsi nudi di fronte alla propria essenza che significa per me Buto Bianco. Oltre le tenebre della propria esistenza, sotto il sole bianco della consapevolezza.[4]

Nel testo The Intensity of Nothingness il vuoto è raffigurato dall’immagine di un vortice, al cui passaggio violento, ogni cosa viene rasa al suolo, inglobata in una gigantesca spirale, come specifica ulteriormente nell’altro testo, The Intensity of Emptiness. Rifacendoci alla dimensione dell’umano, attraverso la dinamica del vuoto-vortice si può focalizzare per riflesso, una determinata condizione psicofisica, la dimensione energetica derivata da uno sfinimento corporeo, che interviene, per esempio, dopo una forte turbolenza o agitazione emotiva. Ci si avvicina così alla percezione del vuoto/nulla tramite la sensazione dell’essere, del sentirsi svuotati, come stato energetico mentale e tramite una sensazione di saturazione e di pienezza, rilevata da uno stato fisico. Il vuoto/nulla come uno stato di grazia che contiene una pienezza ed uno svuotamento. L’intensità del nulla e l’intensità del vuoto racchiudono l’intuizione di una verità ultima o di una verità prima che ci comprende, alla quale si giunge per condizioni limite nella vita come nella danza:

Bisogna che osi il salto alle origini, per vivere della verità come chi è diventato tutt’uno con essa. Bisogna che ridiventi scolaro, principiante, che superi l’ultimo tratto del cammino, il più aspro della via, per cui s’è messo, attraversando nuove metamorfosi. Se trionfa di questa impresa temeraria, allora il suo destino si compie ed egli incontrerà la verità non più riflessa, la verità sopra tutte le verità, l’origine senza forma di tutte le origini: il Nulla, che pure è il tutto- ne verrà inghiottito e rinascerà da esso.[5]

Nella danza la condizione psicofisica più prossima alla percezione del vuoto/nulla è l’immobilità nell’attesa, come danza silenziosa alla quale partecipa tutto il corpo. Si danza nel corpo prima ancora che con il corpo. Si ha il massimo d’intensità nel minimo di attività. Nell’immobilità si ritorna alla fonte dell’attività interiore. Tale danza silenziosa per essere visibile, tangibile nella sua asciuttezza, nel suo fremito, deve radicarsi in una impetuosità interiore, deve essere come un grido inespresso, trattenuto. Si determina il vuoto non come un’assenza, ma al contrario come una presenza dinamica inespressa. E’ il -qui ed ora- alla sua massima potenza. La qualità della concentrazione che gli compete è molto vicina alla dimensione dell’essere assorti, l’essere catturati da qualcosa. Una sorta di totale immersione, che produce un’apertura, un’ampiezza, un allargamento delle possibilità percettive. Il corpo nell’atto di una completa ricezione dell’altro da sé. Una passività attiva. Un accogliere e al tempo stesso un voler essere accolti da uno spazio e un tempo percepiti come aderenti e assoluti. Si raggiunge un’armonia che dal punto di vista della danza riconduce ad una centralità psicofisica, energetica. Per eccellenza il vuoto/nulla è l’essenza, il centro, il cuore delle cose. Nell’immobilità e nell’attesa si è identici a se stessi. L’identità, il centrarsi come un ritorno all’origine, che è l’uno e il molteplice contenuti organicamente. Danzando l’immobilità si percepisce il vuoto come una condizione di azzeramento e totalità insieme, un qualcosa per cui si è mossi al desiderio della danza, una verità più grande che ci contiene e comprende nell’atto di…. Il vuoto, l’immobilità come luogo d’origine di ogni movimento:

Come il suono nasce dal silenzio così l’immobilità contiene tutti i movimenti: essere nel vuoto totale permette al corpo di scoprire i nuovi fili che lo moveranno.[6]

Il vuoto è un atto d’amore, quello della rassegnazione. E’ una rinuncia al voler fare, al voler essere, per essere solamente, eliminando ogni volontà che regola, misura e non permette alla vera sostanza che noi siamo di manifestarsi:

I must first accept the difficulty and bliss of realizing in my body light, an intermediate entity between organism and minerals. Light instantly glitters only when many conditions are met. For this rare moment of accord, I must pour the final and greatest love called ‘resignation’.[7]

Il vuoto è la condizione della non-azione, del non-fare, in tal senso coincide con la massima espansione dell’energia interna del corpo. Il non fare nulla è la prima disabitudine al lavoro. È un non-fare inconsapevole a non dire niente sulle cose o su noi stessi. L’azione è il momento in cui gli equilibri si rompono. Il fare qualcosa, muoversi, crea una serie di onde di movimenti ed un processo immediatamente successivo di riequilibrio, tornando all’immobilità, al nulla, al vuoto. Questo vuoto è consapevole. È l’azione che conduce ad esso. L’assenza di quell’azione gli dà potere. Perché l’azione sia assente essa deve essere agita, gli equilibri devono essere stati rotti. Nel non fare nulla l’azione non è assente, perché è compresa nel vuoto, è parte del vuoto, è parte di esso, della sua storia. Questo non far nulla porta la forza di tutte le cose fatte, agite. Nel vuoto si rimane sospesi tra ciò che è stato fatto e quello che potrebbe accadere. Il -tra- consiste in una pausa nella quale e grazie alla quale ci percepiamo e ci conosciamo nell’immobilità. Possiamo ascoltare il silenzio che il corpo stesso produce. Il vuoto è attesa, è silenzio. Al silenzio assoluto corrisponde la massima attivazione dell’energia, perché lì l’energia dimora. Il vuoto veicola un’energia che è presenza globale, inscindibilità del fisico e del mentale. Nella danza del vuoto l’energia viaggia pacificamente all’interno del corpo, producendo una specie di torpore, di piacere. L’energia raggiunge le articolazioni avvolgendole, rendendole maggiormente fluide, donando loro elasticità. Quello che è un piacere fisico conforta la mente e ciò favorisce un rilassamento muscolare. Nel gergo laboratoriale si usa dire che il corpo è morbido, dolce, disponibile. Lo scioglimento di ogni tipo di tensione comporta una maggiore percezione della forza gravitazionale ed il movimento, lo spostarsi, diventa minimo. Il corpo appare fragile. A causa dell’impercettibilità e della delicatezza dei movimenti, il danzatore sembra fluttuare nello spazio. L’equilibrio è precario, potrebbe rompersi da un momento all’altro. Ogni spostamento va curato nel dettaglio. Nella dimensione della danza, questa assenza apparente dell’azione corrisponde in realtà ad un enorme lavorio interno: tendini, muscoli, ossa si coordinano tra loro per sostenere, mantenere, evolvere la postura del danzatore. La presenza di uno stato psicofisico comporta un assorbimento. La parte razionale, l’intelletto, non interferisce perché impegnato nel guardare, nell’osservare il corpo, senza reagire emotivamente, ma distanziandosi in qualità di testimone. In questo modo può generarsi un’innata potenza fisica; si manifesta un’energia interna. La danza può essere ricercata anche nel movimento interno al corpo. Questa dolcezza, questo piacere che informa di sé la struttura più profonda del corpo, libera, rende disponibili nello spirito. Siamo in presenza di uno stato corporeo ideale in cui le possibilità dell’azione sono infinite, perché s’intensifica l’ascolto dell’interno di sé e dell’esterno a sé, in una loro quasi fusione.  Lo scarto al movimento è dato dall’insorgere di un desiderio profondo, dall’intensità di una motivazione, che realizza l’unica azione possibile. La cultura Zen ci viene in aiuto:

“[…]un unicum, senza interno e senza esterno, senza confini e senza limiti, al di là della dualità di soggetto e oggetto – nello sprofondare dell’unicità, nello sprofondare dell’uno-unico fenomeno o dell’una-unica azione.”[8]

Nel vuoto dell’azione si verifica l’immensità del nulla. L’intensità del vuoto/nulla, dello spazio infinito e del tempo smisurato, questo acuirsi produce la sola danza che possa rappresentarci totalmente e intimamente. La realizzazione del vuoto avviene nell’improvvisazione, come è indicato dalla voce numero 4 nel testo riportato. Per allenare l’improvvisazione (to train Improvisation) nel buto bianco, s’intende allora la capacità del danzatore di saper cogliere tra i molti elementi a disposizione, l’unico, il solo realmente efficace, in grado di portare ed evolvere la propria danza, arricchendola e attraverso il quale proseguire nello scavo della propria natura interiore, intercettata da una motivazione di partenza. Per improvvisazione s’intende la prontezza del danzatore nell’assecondare il momento più proficuo; nel rendere visibili quelle che sono delle perturbazioni e degli addensamenti energetici, emozionali. Il vuoto è, rappresenta ogni possibilità. l’intensità del vuoto è la sua esattezza. Dunque, ancora una volta attraverso l’intensità del nulla, un retrocedere, un sottrarre, un’oggettività, oppure semplicemente una naturale condizione dell’esistere, del sentire, che ricerca l’essenza della vita in ogni sua manifestazione, osservandola per farla propria, registrarla e trattenerla. Esiste il vuoto nel senso del déjà vu, un qualcosa a noi misteriosamente familiare, che ci appartiene, come ciò che è antico o ciò che riguarda il passato. In tal senso è un infrangersi dei limiti temporali e spaziali; è qualcosa che non si può esprimere, ma se ne può fare esperienza:

L’assenza di tutte le cose ritorna come una presenza: come il luogo in cui tutto è sprofondato, come una densità d’atmosfera, come una pienezza del vuoto o come il mormorio del silenzio. C’è, impersonale, il ‘campo di forze’ dell’esistere. Qualcosa che non è né soggetto, né sostantivo. Ed è anonimo: non c’è nulla e nessuno che prenda quest’essenza su di sé. È impersonale come ‘piove’ o ‘fa caldo’.[9]

Trovo una profonda affinità tra queste parole del filosofo Emmanuel Levinas e quelle del danzatore Masaki Iwana che tentano, in maniera intrigante, di testimoniare una intangibilità della danza:

I like the sort of space in which, on top of that, is impregnated with time – a derelict house, for example, where someone used to live but which is now empty, and yet which has definite traces of decades of time. If I stand in such a place, I can never command it as I have been impregnated with only so much time, but I still want to be there. That kind of desire adds to my desire to dance.[10]

Lo stare, il luogo d’incontro tra coordinate temporali e spaziali, un desiderio che si aggiunge al desiderio della danza e sufficiente in sé stesso. Di nuovo l’immobilità, l’attesa determinati dalla dimensione del vuoto, del nulla e nella realizzazione di un profondo volto dell’essere umano. Prendendo in prestito la terminologia di danza di Masaki Iwana, il silenzio è una evil intention,  perché vince l’ansia del dover fare, legittimando l’immobilità come azione della danza. Il silenzio appartiene al recede in quanto ricerca dell’essenziale, consiste in un retrocedere che contrasta la cognizione comune dell’espressione come spettacolare dinamica nello spazio. Ci sono una serie di esercizi di danza inerenti alla parte laboratoriale del lavoro, che riprendono il tema del luogo in rovina, desolato, ad evocare una condizione umana quale la fragilità, la perdita, la sensazione di vuoto interiore: A ruin; A prostitute named ruin; Return from a ruin + moon. Tutti si rifanno allo stesso concetto:

“Quando l’uomo abbandona l’intelletto, sprofonda nell’abisso del vuoto, un vuoto nato dall’affermazione che egli è semplice. E’ allora che l’uomo riceve un potere intenso, fenomenale, il potere di generare il mondo dello spirito”.[11]

If European dances are those of ‘substance’ expressing will and force, Iwana’s dance is that of a ‘void’ nullifying will and force, or consciousness in general.[12]

 

C’è una frase che Masaki Iwana ripete spesso quando osserva le danze dei suoi allievi: To do nothing is the best, che potrebbe sintetizzare tutta la filosofia del vuoto/nulla sottesa al suo buto bianco. Una sensibilità che rifiuta ciò che è artificiale per dare luogo all’imprevedibilità del semplice, facendolo emergere per come è. Attraverso la condizione del vuoto e la dimensione del nulla, si ha la possibilità di ritornare alla motivazione originaria che ci ha guidati nell’intraprendere un percorso e al tempo stesso di poter viaggiare attraverso i tempi della rappresentazione di sé. L’istante prima dell’azione, la motivazione, è racchiusa nel self, nel sé di sé stessi. Il vuoto è l’essenza dell’essere  e la danza ne rappresenta la sua trasformazione in sostanza percepibile. Presenza e assenza. L’assoluto relativizzato alla personalità di ognuno, le categorie temporali e spaziali di uno stato interiore, la vastità che la danza può rappresentare. Tutto può accadere, se non è già accaduto. Dall’impossibilità di poter delimitare precisamente il buto in una definizione, in una qualità dell’azione, in una qualità della presenza, Masaki Iwana arriverà ad altre considerazioni. Danzando, insegnando, assistendo alle danze di altri suoi colleghi, giunge ad una conclusione: l’essenza, la qualità buto della danza, si trova nell’intensità del nulla. Origine dalla quale partire e alla quale ritornare, in un ciclo senza fine. The Intensity of Nothingness  è il luogo di noi stessi più recondito, più ricco ed innocente, di fronte al quale, una volta individuato percettivamente, rimaniamo in ascolto, in una sorta di dignitoso rispetto. Si realizza una condizione di oggettività, un momento raro e prezioso in cui un’evidenza si palesa. Si incontra quell’istante, prima di ogni accadimento, in cui si può gustare la verità per la quale danziamo. Il danzatore deve voler ricercare questa conoscenza di sé, una verità che non concede esitazioni.

 

 

 

 

 

 

[1] L’espressione è stata usata da Masaki Iwana anche per una sua performance di danza: Iokannan, l’Éblouissement du néant (1998). L’incontro con Alessandra Cristiani si è svolto al Castello Pasquini il 22 e il 23 aprile del 2017.

[2] Eugen Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco, Milano, Adelphi, 1975, p. 32.

[3] Herrigel, 1975, p. 32.

[4] Rossella Battisti, La danza di Masaki, signore del Buto, in L’Unità, 3 marzo 1995, in occasione della performance di danza Yomotsu Hirasaka (Il Pendio che divide la Vita dalla Morte).

[5] Herrigel, 1975, p. 100.

[6] Mitsutaka Ishii, La danza del nulla (Mu dansu), in Jean Viala & Nourit Masson-Sekine, Butoh: Shades of Darkness, Tokyo, Shufunotomo,1988, p. 152.

[7] Masaki Iwana, For Flesh of Light, Parigi, Marzo1991, p.2. Programma di sala per la performance di danza Flesh of Light.

[8] Hoseki Schinichi Hisamatsu, La pienezza del nulla, Il Melangolo, Genova, 1993, p. 26.

[9] Emmanuel Levinas, Il tempo e l’altro, Il Melangolo, Genova, 1977, p. 52.

[10] In Reiko Shiga, Contemporary Currents in Dance-Ten Questions to Dancers-Part7: Masaki Iwana; in Ai Press (Ai Hall Dance Collection) Ott.-Dic. 1997, p. 4.

[11] Dal programma di sala della danza Yomotsu Hirasaka (Il pendio che divide la vita dalla morte), all’interno del Progetto Scambi Giappone-Italia, promosso dall’Istituto Giapponese di Cultura. Teatro Furio Camillo, Roma, 4-10 marzo 1995.

[12] Hiroshi Ichikawa, Iwanami Shoten, Horizons of Modern Art, Tokyo, 1984; pubblicato in Masaki Iwana. Solo Buto Danse 79-93. Dressed In Water. Habillè d’eau, Parigi, La Maison du Buto Blanc, 1993.

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