Enrico Piergiacomi
Il puro neutro? Per un teatro senza qualità[1]
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Cos’è dunque il tempo? Se qualcuno me lo chiede, non lo so. Ma se nessuno me lo chiede… ne so ancora meno! Poiché è dialogando con altri che riesco, a volte, a capir qualcosina su qualcosa. Se poi mi interrogo, o mi domandano, che nesso vi sia tra tempo e teatro, l’ignoranza raggiunge picchi estremi. Comprendere la loro relazione sarebbe come spiegare il buio con l’oscurità: una realtà ignota con una ancora più ignota. Forse potremo saperne di più discutendone in comune. Proviamo a sondare insieme i due abissi?
§ 1. Prolegomeni. Scolpire il tempo?
Partiamo da una formula felice di Scolpire il tempo di Andrej Tarkovskij. Il volume dedica un intero capitolo[2] al rapporto peculiare dell’artista con la temporalità, ipotizzando che il lavoro del primo consista nel conferire al tempo una determinata forma e di infondergli qualità nuove o diverse al suo fluire ordinario:
In che cosa consiste allora l’essenza del lavoro dell’autore nel cinema? Convenzionalmente lo possiamo definire una scultura nel tempo. Analogamente a come lo scultore prende un blocco di marmo e, guidato dalla visione interiore della sua futura opera, toglie tutto ciò che è superfluo, così il cineasta dal ‘blocco del tempo’, che abbraccia l’enorme e inarticolata somma dei fatti della vita, taglia fuori e getta via tutto ciò che non serve, lasciando solo ciò che deve divenire un elemento del futuro film, ciò che dovrà costituire una delle componenti dell’immagine cinematografica. In questo atto si realizza la scelta artistica che caratterizza ogni genere di arte (p. 60)
Dunque, io ritengo che il mio compito professionale consista nel creare il mio personale fluire del tempo, nel rendere nell’inquadratura la mia percezione del suo movimento – da quello pigro e sonnolento, a quello tumultuoso e impetuoso. (…) Il procedimento di articolazione, il montaggio, turba il fluire del tempo, lo interrompe, e contemporaneamente genera una nuova qualità di esso. La deformazione del tempo è un procedimento per dare ad esso espressione ritmica. È COME SCOLPIRE IL TEMPO! (p. 114)
È vero che Tarkovskij parla qui dello specifico del cinema. Nelle pagine precedenti (pp. 58-59), egli riconosce, inoltre, che ‘scolpiscono il tempo’ anche le arti della letteratura e della musica. Il teatro non è invece menzionato da Tarkovskij, e questo pone dei problemi alla diretta applicazione della sua bella formula alle costruzioni ritmiche che gli attori creano di fronte al pubblico. Si tratta, però, di un silenzio che non deve turbare. Tarkovskij scrive, infatti, che l’atto di dar forma al «blocco del tempo» è «la scelta artistica che caratterizza ogni genere di arte». Teatro incluso, dunque. Se si volessi riformulare il pensiero di Tarkovskij applicato a quest’arte, potremmo dire che essa consiste nello ‘scolpire’ il flusso temporale, infondendogli un ritmo diverso, nuovo, inconsueto, rispetto a quello ordinaria. Il tempo sarebbe la ‘materia dell’attore’, mentre l’attore rappresenterebbe la ‘forma del tempo’.
Questa prospettiva risulta problematica, però, per almeno due aspetti. Il primo è che la formula ‘scolpire il tempo’ è parziale, perché definisce la temporalità solo secondo la prospettiva dell’artista. Forse Tarkovskij coglie un elemento essenziale del teatro e di tutto ciò che possiamo annoverare sotto il genere ‘arte’. Egli omette, tuttavia, di indagare che cosa sia il tempo in sé, pertanto ritaglia con il suo discorso una minuscola parte di un’entità assai più complessa.
Il secondo problema che emerge quando si studia nel dettaglio la prospettiva di Tarkovskij è il seguente. Approfondiamo la sua analogia con la scultura. Uno scultore che volesse realizzare una statua dovrà sapere che qualità ha la materia che decide di usare e come dovrà modellarla per dotarla di una certa forma. Si comporterà assai diversamente, ad esempio, se si proporrà di fare una scultura in legno, o in argilla, o in marmo, poiché appunto i tre materiali hanno caratteristiche diverse e possono essere lavorati con strumenti dissimili. Certi sono più resistenti, certi più malleabili; per alcuni c’è bisogno di usare coltello o scalpello, per altri è sufficiente il tocco fermo ma gentile delle mani dello scultore. Ora, se il processo artistico di un attore o più in generale di un artista consiste davvero nello ‘scolpire’ il tempo, questi si dovrà necessariamente chiedere: che qualità ha la materia del tempo che debbo formare e modellare? Ciò non è spiegato né problematizzato da Tarkovskij, sicché la sua pur indubbiamente fascinosa formula risulta essere, a uno sguardo più esigente, oscura e incompleta.
Ammesso che l’attore abbia bisogno davvero di chiedersi quali siano le qualità del tempo per imparare a scolpire al meglio, gli si prospetta così un compito immane. Quali siano le proprietà della materia del tempo di cui l’artista è forma non è un dato ovvio né semplice, sicché c’è bisogno di un’indagine lunga e articolata. In questa sede, cercherò allora di capire un po’ più nel dettaglio che cosa potrebbe essere il tempo in sé che l’attore ‘scolpisce’ e che relazione abbia col teatro. Tale tentativo risulterà, tuttavia, un balbettio e per molti aspetti anche falso, soprattutto a un fisico serio che ha dimostrato che la temporalità potrebbe addirittura non esistere e che le nostre intuizioni al suo riguardo sono profondamente sbagliate[3]. E avrà ragione. Ma il mio tentativo offrirà forse almeno alcune ipotesi di lavoro per l’artista e un possibile metodo di scolpire al meglio quell’ombra illusoria che è il tempo della nostra vita.
Il metodo più adatto a tal fine consisterebbe, in teoria, nella divisione dialettica. Si dovrà cercare, in altre parole, di isolare due qualità tra loro opposte, decidere quale tra loro compete al tempo e, una volta fatto ciò, prendere la qualità scelta come nuovo punto di partenza per dividere ancora, fino a giungere a qualcosa di non più scomponibile o divisibile. Noteremo presto, però, che una tale divisione dialettica risulterà essere impossibile, poiché il tempo sembra essere un ente del tutto atipico.
§ 2. Dividere il tempo
2.1. Inessente/essente?
La prima decisione si impernia su questo. Il tempo ‘è’ o ‘non-è’? Non è un passo da nulla, decidere tra essere e nulla. Gli stessi predicati ‘è’ o ‘non-è’ non sono facilmente definibili sul piano astratto, seppure noi ne facciamo uso nel linguaggio quotidiano.
Intanto, va evitato un equivoco. Non intendo qui riferirmi al problema se il tempo ‘è’ o ‘non è’ in senso assoluto. Se ponessimo la questione in questo modo, infatti, non potremo che sancire con totale sicurezza che esso ‘non è’, se siamo – come si è appena visto – dei fisici, o che esso ‘è’, se siamo dialettici. Un non-essere assoluto è, del resto, indicibile e impensabile. Quando percepisco o penso, percepisco o penso sempre qualcosa. Ciò vale anche per enti illusori come i centauri, che non si incontrano nell’esperienza e, tuttavia, esistono almeno come entità dell’immaginazione. Ma il discorso si applica allo stesso nulla. Se infatti vi ragiono sopra, sto pur pensando al concetto di ‘nulla’. O se dico ‘non vedo nulla’, intendo dire che le mie capacità sensoriali sono per il momento incapaci di percepire gli oggetti esterni, non già che sono entrato in contatto con un presunto niente sommo.
La divisione dialettica intende, invece, la coppia ‘non è-è’ in un senso non-assoluto. Diciamo che una cosa ‘è’, laddove facciamo in parte riferimento a delle caratteristiche stabili / identiche. Quando dico che Tespi ‘è un attore’, ad esempio, riconosco che in qualunque circostanza lo collochiamo (mentre mangia, dorme, scherza, ecc.) egli consiste in questo essere umano qui, ancora vivo, capace di recitare ed evocare, qualche volta, il teatro. Di contro, sosteniamo che una cosa ‘non è’, laddove muta o diventa diversa. Potrei dire a ragione che Tespi ‘non è più un attore’ se constatassi che, a seguito di un grave incidente, ha perso la sua facoltà di recitare e, posto sul palco, non sa più dare un ritmo godibile al tempo. La naturale conseguenza di questo modo di impostare la questione è che pochi enti ‘sono’ o ‘non sono’ in senso pieno. Tespi può rimanere un attore e, tuttavia, cambiare colore della pelle e taglio della barba, o appunto anche perdere la qualità fondante della sua identità a seguito di un incidente. Noi oscilliamo insomma sempre in una sottile lineetta tra ‘essere’ e ‘nulla’, tra il mutevole e l’identico.
Come decliniamo tale questione nei confronti del tempo? Da un certo punto di vista, dovremmo dire che esso ‘non è’. Il tempo si fa più intenso o più rarefatto, più lungo o più breve, e così via, in altre parole altera di continuo il suo corso. Ma se lo guardiamo da un altro punto di vista, dobbiamo dire che esso ‘è’. Vi sono infatti dei cicli che si succedono in modo rigoroso e necessario: l’alternarsi delle stagioni, o i processi di nascita e distruzione dei viventi. Potremmo poi cogliere che il tempo si pone a sua volta nella sottile lineetta che separa l’essere dal nulla guardando a una sua qualunque scansione ritmica. Il ritmo è, difatti, quella forma che si mantiene stabile e identica, ma ammette mutamenti o variazioni interne, come nei passi di danza “1-2-3, 1-2-3, 1-2-3-4”, che possono farsi veloci o lenti, caricati o leggeri, e via dicendo.
Quella a cui siamo giunti non è una grande scoperta. Il fatto che (esattamente come noi) il tempo insieme ‘sia’ e ‘non sia’ è una banale constatazione empirica, formulata con un linguaggio più astratto. Noi siamo, del resto, esseri temporali proprio perché, mentre viviamo, manteniamo qualcosa di stabile e mutiamo altri caratteri. Le successive divisioni risulteranno, invece, assai più inquietanti.
2.2. Corporeo/incorporeo, sensibile/intelligibile, esterno/interno?
A livello metodologico, ogni ente può essere indagato da almeno tre diverse prospettive. Distinguiamo, anzitutto, il piano oggettivo. Un ente può essere un corpo, come l’essere umano, o un incorporeo, per esempio il centauro che esiste come concetto o proiezione elaborata dalla mia mente. Vi è poi il piano soggettivo: un ente può essere sensibile o intelligibile. Posso toccare, vedere, ascoltare, leccare, udire un uomo o una donna concreti. Il concetto di ‘essere umano’ e il centauro sono invece concepibili solo con la mente. Vi è infine il piano relazionale, che si basa soprattutto sulla coppia ‘esterno-interno’. Con un essere umano concreto posso avere una relazione esteriore: posso litigarci, farci l’amore, studiare insieme, e via dicendo. Con un centauro posso invece instaurare un contatto interiore, per esempio costruendo una sua storia e un suo ciclo epico, che tuttavia resta confinato sul piano della mia immaginazione.
Cosa dire in tal senso del tempo? Sul piano oggettivo, sembra essere corporeo, perché lo vediamo agire su di noi. Col passare degli anni, le rughe solcano sempre più il mio viso. Ma il tempo non potrebbe farlo, se non fosse appunto corporeo: infatti, nulla che non sia corpo può toccare ed essere toccato (Lucrezio, De rerum natura V, v. 152). D’altro canto, esso pare essere anche un incorporeo, almeno se ne constatiamo la sua funzione principale, colta da Aristotele con il suo consueto linguaggio solido e preciso. Il tempo è da lui definito come il «numero del tempo secondo il prima e il poi» (Fisica IV, 219a). La formula significa che il tempo è quel qualcosa tramite cui misuriamo la scansione di un movimento, che parte da un punto A e giunge a un punto E, passando per B, C, D. (O volendo, che procede all’infinito, per un’inesauribile somma di istanti). Il tempo è un numero, se con ‘numero’ intendiamo quell’entità mentale attraverso cui dividiamo una grandezza o un processo secondo unità in successione. Ora, la definizione aristotelica mostra che il tempo è anche un incorporeo. Non posso prendere a pugni un numero, né è questo numero che in se stesso divide il moto. Quando dico che il movimento procede ‘in quattro tempi’, sono io stesso che lo misuro temporalmente. Il tempo pare insomma essere insieme corporeo e incorporeo, perché agisce su noi, ma è anche un numero che aiuta a misurare il movimento e la quiete di qualcosa.
La medesima difficoltà si incontra a livello soggettivo. Il tempo è colto anzitutto attraverso i sensi. Una costruzione ritmica che un attore elabora sulla scena è percepita con l’udito, prima ancora di essere valutata e giudicata con la mente. Ma il tempo è anche compreso intellettualmente, quindi con il ragionamento. Lo cogliamo, anzitutto, in analogia con i movimenti, quali l’alternarsi del giorno con la notte. O ancora, lo conosciamo mediante alcuni intermediari. Si pensi all’uso quotidiano degli orologi e dei calendari. Le cifre e altri segni convenzionali (nomi di mesi, ricorrenze, ecc.) sono ciò che ci consente di dedurre in quale tempo siamo. Senza questi apparati, non potrei percepire da solo che sono le 15:35 del 5 settembre 2017, soprattutto se sono stato in coma per un lungo numero di anni. Il tempo sembra così essere sia sensibile che intelligibile, perché stimola simultaneamente i sensi ed è individuato attraverso la mente.
E infine, si incontra la medesima polarità ambigua sul piano relazionale. Il tempo è una realtà esteriore, perché è quella dimensione condivisa dagli esseri umani che permette di coordinarsi, incontrarsi, programmare eventi distanti dal presente. Un esempio che ci aiuta è il gesto di prendere un treno per andare a un festival. Questa azione risulterebbe impossibile, o possibile solo in virtù di un caso miracoloso, se non potessimo mutualmente accordarci che alla data ora passerà il dato mezzo che mi farà raggiungere queste date zone / persone in un dato giorno. Il tempo è così uno strumento di relazione, la cui improvvisa assenza farebbe piombare l’esistenza nel caos. D’altro canto, esso è anche una realtà interiore. C’è un tempo che è solo mio ed è sottratto alla sfera degli altri. Tale è quello del ricordo, ad esempio. Questo tempo mi porta in luoghi e in epoche distantissime, a contatto con persone diverse da quelle attuali, o persino non più-esistenti. Ciò accade quando la moglie rammenta il marito e, fantasticando, immagina come sarebbe potuta essere la vita trascorsa insieme a lui. Il tempo pare così essere sia esteriore-interiore, anzi può manifestare insieme queste due qualità. Quando prendo alle 15:35 il treno per Verona del 5 settembre 2017, posso viaggiare per incontrare nuove splendide persone e, durante il viaggio, ricordare il mio amore perduto dell’8 ottobre 2013, che i casi della vita hanno voluto si allontanasse da me.
2.3. Finito/infinito?
Torniamo adesso un momento alla definizione aristotelica del tempo come il numero del movimento secondo il prima e il poi. Questa formula ci mostra che la temporalità ha anche una grandezza. E se è tale, dovrebbe averne una finita, o infinita. Quale delle due qualità dovremmo assumere per continuare la divisione?
Vi sono segni che paiono indicare che il tempo sia infinito. Persino accettando con la fisica quantistica che un giorno l’universo raggiungerà la sua massima espansione e il grande gelo si sarà diffuso ovunque, vi saranno comunque ancora delle fluttuazioni casuali delle particelle. Permarrà sempre, insomma, un moto incessante misurabile temporalmente.
Se però passiamo dalla dimensione cosmica a quella individuale, si dovrà riconoscere che il tempo è anche finito. È una banale ma tragica verità che, purtroppo, gli anni che viviamo non sono eterni. Quando il tempo pervade la vita umana, esso si manifesta allora finito; quando inerisce al cosmo, risulta essere infinito. Non è così di nuovo possibile dividere la temporalità optando per un’unica delle due qualità. Il tempo pare essere una grandezza simultaneamente finita e infinita.
Qui si potrebbero però muovere due obiezioni. La prima è mutuata da un’osservazione di Aristotele (Fisica IV, 223a). Egli nega che esista tempo senza un’anima che lo misuri. Se esso è un numero, dovrà esistere non solo un numerato (= il moto), ma anche un numerante. E quest’ultimo è, appunto, l’anima. Nello scenario della fisica quantistica prima accennato, cioè la distruzione di tutta la vita nel grande freddo, anche la temporalità cesserà pertanto di esistere. Il tempo insomma sarà infinito se sarà infinito il movimento e se sarà infinita almeno un’anima che lo misuri. Ma solo la prima condizione può essere soddisfatta. Le anime infatti muoiono, sicché a un certo punto non vi sarà più nessuno a contare e numerare. Ne segue che il moto numerato è infinito, ma che il tempo-numero è finito.
Certi teologi o metafisici potrebbero superare la difficoltà ammettendo l’immortalità dell’anima, o ipotizzando una mente divina che si interessa al cosmo, ossia immaginando che sopravvivrà sempre qualcosa capace di contare e numerare. Ma dato che sono due tesi controverse e su cui io stesso avrei più argomenti contrari che a favore, è meglio risolverla sostenendo che ciò che finisce in tale scenario è il tempo numerato in atto. Infatti, anche in assenza di qualunque anima, esisterà forse una temporalità numerabile in potenza. Vale a dire, un tempo che sarebbe numerato in atto, se sussistesse ancora una mente capace di misurarlo.
La seconda obiezione è che dire che il tempo è sia infinito che finito è un enunciato sofistico. Potrebbe anche darsi che la temporalità in sé sia infinita e che quello che in noi finisce sia solo una parte di questo insieme cosmico più ampio. Non dobbiamo allora affermare che il nostro tempo finisce, bensì che termina la porzione di tempo (universale) che il caso ci ha assegnato. Dire che la temporalità è infinita quanto al cosmo e finita quanto all’individuo sarebbe come dire che una casa è anche ogni singolo mattone. Ma ciò è assurdo. I mattoni sono parti della casa, ma nessuno di loro è la casa.
Tale obiezione è, a mio avviso, viziata da una premessa falsa. Suppone che un insieme infinito possa essere composto da parti finite. Ma il tempo di ogni essere vivente ha una sua forma conchiusa (cioè almeno un inizio, uno sviluppo, una fine), mentre quello del cosmo no. Una realtà infinita deve infatti essere informe, altrimenti sarebbe limitata. Ma se è così, dire che il tempo infinito è composto di parti finite implicherebbe che una massa senza forma è un insieme di forme, il che è contraddittorio. L’analogia con la casa non è poi perfetta. La costruzione ha forma e limiti definiti (= fondamento, tetto, mura). Paragonarla all’infinito informe e privo di confini sarebbe arbitrario, anche supponendo che essa cresca senza sosta. In tal caso, la casa aumenterebbe di dimensione, ma avrebbe comunque una forma i cui confini si estendono ininterrottamente. Immaginare un edificio che non è chiuso dai limiti di un tetto sarebbe un non-senso, perché non sarebbe formalmente più un edificio.
Asserire che il tempo è sia finito che infinito è perciò una stravaganza necessaria. Se ammettessimo solo l’uno o solo l’altro attributo, incorreremmo in delle contraddizioni, o isoleremmo un unico aspetto della sua natura e non descriveremmo la sua totalità.
2.4. Esteso/inesteso, divisibile/indivisibile?
A prescindere che il tempo sia finito, o infinito, o l’uno e l’altro insieme, il fatto che esso abbia una grandezza implica l’ulteriore problema se abbia anche un’estensione e sia passibile di essere diviso, oppure se sia inesteso e indivisibile, dunque una ‘massa’ compatta. Anche qui la risposta non pare essere univoca.
L’idea che il tempo sia esteso e divisibile è confermata dalla nostra esperienza. Posso dividerlo, del resto, in ‘istanti’ e connotarlo secondo un’estensione spaziale. Continuiamo, infatti, con il metodo di studiare l’abisso della temporalità con esempi piccoli, controllabili e semplici. Una brocca vuota si riempie dell’acqua che scorre da un rubinetto rotto in x minuti. In questo lasso temporale, il moto del liquido ha attraversato una data somma di istanti, all’interno della quale è possibile distinguere in quante parti tale moto si è diviso. Se poniamo che sono stati necessari tre minuti per riempire la brocca e accettiamo, per convenzione, che un istante corrisponda a un secondo[4], allora potrò dire che il tempo in cui l’acqua ha riempito tutta la superficie vuota è divisibile in 180 istanti. D’altro canto, poiché il nostro rubinetto è rotto, dunque lo scorrere del liquido ora si inceppa e ora accelera, la linea del tempo non procederà in parallelo con lo spazio occupato. Nei primi 2 minuti, l’acqua scorre velocemente e riempie 5/6 della brocca. Nel terzo (= nei 60 istanti rimasti), invece, essa gocciola a fatica e riempie assai più lentamente la porzione del contenitore rimasta vuota. Ecco che così notiamo che la linea del tempo può anche essere divisa in tre segmenti diversamente estesi quanto allo spazio: due più lunghi ma uniformi (= 120 istanti che occupano 5/6 della superficie) e uno più breve (= 60 istanti che riempiono l’1/6 rimanente). Il tempo stesso si divide, pertanto, in grani di variabile estensione.
Una conferma empirica dell’estensione e della divisibilità temporale è poi derivabile dalla nostra psicologia. Il tempo è divisibile in tre parti: passato, presente, futuro. E ciascuna di loro si estende in maniera non uniforme. Il passato di un neonato è più piccolo rispetto al suo futuro, mentre il rapporto si inverte per un anziano in punto di morte. Il presente si dilata, di contro, quanto più è ampio l’avvenire di un individuo. A meno che una disgrazia non lo faccia morire prematuramente, il neonato con una grande quantità di futuro aderirà di più all’oggi dell’anziano che ha ancora poco da vivere.
Tuttavia, guardandolo da un altro punto di vista, il tempo pare essere anche indivisibile e compatto. Problematizziamo, intanto, la nostra psicologia. Il passato, il presente e il futuro convergono in larga parte nelle nostre azioni. Quando ho sete, accade simultaneamente che io: 1) percepisca un disagio e mi guardi intorno per trovare della bevanda, 2) ricordi che cosa mi ha dato soddisfazione, come una fontana da cui ho attinto acqua in precedenza, 3) programmi cosa fare e dove andare per rimediare al bisogno. Le tre divisioni psicologiche sono così in parte artificiali, perché ogni volta che agisco nel presente attingo anche al mio passato e al mio futuro, in parte anche naturali. In fondo, faccio riferimento a tre momenti oggettivamente diversi della mia esperienza[5]. Quanto alla divisione del tempo secondo la sua successione, è possibile problematizzarla guardando più da vicino la natura dell’istante. Quest’ultimo è in sé privo di parti ed estensione. Altrimenti, potrebbe essere a sua volta diviso in un ‘prima’ e in un ‘poi’, dunque vi sarebbe anche nel suo seno una successione, ma ciò comprometterebbe il concetto stesso di istante, se questo è definibile anche come il punto di fine di un moto precedente e di inizio di quello successivo (cfr. Aristotele, Fisica IV, 220a; VI, cap. 3). Il tempo sarebbe perciò una successione di vuoti, se appunto ogni istante è privo di estensione, ossia un nulla. Se però vogliamo salvare sia quello che ci dice l’esperienza, sia le indicazioni della ragione, dovremo concludere che il tempo è tanto esteso e divisibile, quanto inesteso e indivisibile. Ci ritroviamo così ancora di fronte alla natura ambigua della temporalità.
2.5. Mobile/immobile?
Passiamo ora allo specifico caso del rapporto tra temporalità e moto, dove pare stavolta di poter appurare un dato sicuro. Sembra indiscutibile che si possa dare solo del tempo nel movimento. Tutto ciò che noi percepiamo, facciamo e pensiamo si svolge, infatti, in un moto che procede temporalmente. Quando vedo un aeroplano in cielo, sbuccio una mela e penso a un amore passato, io attraverso un moto percettivo, agente o intellettuale che può subire accelerazioni e decelerazioni anche brusche, nonché che può essere accompagnato da alcuni moti paralleli. Ciò vale, almeno, fintanto che la mia percezione, la mia azione e il mio pensiero saranno attivi. Una loro sospensione fermerà anche il tempo, che allora parrà non esserci più. L’aeroplano che precipita sopra l’aeroporto – invece di atterrarvi – percorre lo stesso spazio in un arco temporale più breve. Se sbuccio la mela con estrema lentezza, le ore in cui svolgo questo gesto appariranno indicibilmente penose, perché i morsi della fame si saranno acuiti con l’attesa del cibo. E se nel pensare al mio amore passato dovessi avere un improvviso colpo di sonno, al mio risveglio avrò l’impressione che il tempo per me non sia affatto passato[6]. Paradossalmente, l’idea che la temporalità sia solo in moto potrebbe così costituire il punto fermo della nostra divisione dialettica.
Tale prospettiva potrebbe anche essere rinforzata mostrando che, dato che forse non esiste ‘immobilità’, allora il tempo non potrà che essere nel movimento. Ancora una volta, l’esperienza ci mostra che questo vale per i viventi. Nessuna cosa viva è mai immobile nel tempo. Se un attore resta fermo per dieci minuti nello spazio, in apparenza senza far nulla, pure qualcosa nel pubblico e sulla scena si muoverà. Seduto al mio posto, ad esempio, potrò adesso percepire il respiro e lo scorrere del sangue dell’artista in sospensione. Lo stesso principio vale, tuttavia, arrischiandosi di più, anche per i morti, o comunque per ciò che è inorganico. Il cadavere non è immobile nel tempo: dopo un numero indefinito di giorni, esso si sfalda e viene agitato dai vermi, mentre i suoi miasmi diventano il cibo assorbito da una rosa in crescita. Una particella quantistica che è stato ferma un numero x di eoni e poi si è mossa per un’interferenza esterna non era ‘immobile’ in senso assoluto, lungo quel pur lunghissimo arco temporale. Era in attesa di muoversi ancora, sollecitata da un mutamento del sistema fisico di appartenenza.
Volendo provare ad usare un linguaggio più preciso, quale è (di nuovo) quello di Aristotele, dovremmo dire che un corpo che resta a lungo nel suo spazio o vitale (= l’attore), o mortale (= il cadavere), o né vitale né mortale (= la particella quantistica), non è ‘immobile’, bensì ‘in quiete’. Con tale espressione, ci si riferisce a una condizione non intrinseca all’oggetto, che resta dunque capace di muoversi. Una cosa in moto per cinque ore può restare in quiete per tre, o una cosa rimasta in quiete per sette potrà muoversi per due. Il tempo non è allora, per estendere la definizione di Aristotele, misura del movimento e dell’immobilità (= del non-movimento), bensì misura del movimento e della quiete (= del movimento sospeso)[7]. Cercando invece di descrivere lo stesso fenomeno in termini estetici, potremmo rubare e modificare le parole che John Cage dedica al silenzio. Se in sintesi l’artista negava che quest’ultimo esiste, perché è semmai la condizione in cui suoni normalmente inuditi diventano udibili[8], noi potremmo dire che l’immobilità non esiste, perché quella che chiamiamo tale è semmai lo stato di quiete in cui movimenti in genere impercepiti diventano percepibili. Silenzio e immobilità sono concetti-limite per indicare quello che sfugge alla soglia abituale della nostra coscienza.
Tutto ciò induce, insomma, a sancire che il tempo è solo nel movimento, perché è assurdo parlare di immobilità e impossibile constatare qualcosa che è totalmente fermo. Dire così che posso misurare i secoli di una realtà immobile sarebbe illogico, perché sarebbe pretendere di misurare ciò che non esiste.
Eppure, vorrei tentare un’operazione per così dire ‘eretica’, che va propria nella direzione di questa illogicità, forse solo apparente. Portando il pensiero oltre le abitudini consuete, è forse concepibile che qualcosa di ‘immobile’ esiste e che lo posso misurare nel tempo. Per tentar ciò, proverò a prendere due strani oggetti tra loro diversi, ma parenti stretti da altri punti di vista: dio e il vuoto.
Esiste un’ipotesi teologica secondo me più convincente di altre (ma non per questo necessariamente vera). Essa vuole che dio qua dio sia del tutto auto-sufficiente, impermeabile a qualunque influenza esterna, indistruttibile e del tutto inattivo – poiché agire o patire lo porterebbe a negare la sua perfezione. Se dunque vi è un vivente dotato di immobilità, questo potrebbe essere appunto dio, in cui il tempo non è pero eliminato, bensì è immobile come l’essere suo. Debbo supporre, infatti, che in una divinità di questo tipo nemmeno il sangue scorra e nemmeno un respiro sia emesso, dunque che non esista in essa movimento, altrimenti avverrebbero moti che la porterebbero prima o poi a distruzione. Posso però anche misurare la durata di questa immobilità, ergo riconoscere al dio una vita che procede temporalmente, sia pure sui generis. Se rifletto che in un anno lo spazio divino non è mutato per nulla e che lo spazio umano è mutato radicalmente, ovvero ne studio il comportamento usando la stessa unità di misura, allora faccio una duplice deduzione. Noto che il medesimo tempo: 1) presso di me si è mosso con gran trambusto; 2) presso dio è rimasto immobile, ovvero è stato fermo senza incidere per nulla. Se una divinità del genere esiste, l’ipotesi che possa esserci una temporalità che non procede nel movimento non risulta essere troppo peregrina.
Le menti sospettose verso la teologia troveranno però forse più cogente il richiamo al vuoto. È vero che questo ente oggi rischia di essere un puro nome, dato che la fisica quantistica ha mostrato che persino gli spazi apparentemente cavi dell’universo accolgono un pullulare di particelle. In tal modo, vi sarà anche qui dentro un movimento. Nondimeno, gli stessi negatori del vuoto inteso come spazio assolutamente cavo riconoscono l’esistenza di un ‘vuoto quantistico’: un’area dell’universo in cui l’energia raggiunge il suo minimo e in cui il tempo delle fluttuazioni (che pure avvengono al suo interno) è uguale a 0[9]. Questa idea è quanto di più vicino c’è a una temporalità immobile. Dire infatti che il numero del tempo è ‘0’ nei vuoti quantistici significa asserire che il tempo non ha misurato alcun cambiamento nel moto interno. Esso è rimasto ‘statico’.
Certamente, questi due esempi così eccezionali e soprattutto controversi non hanno forza sufficiente per smuovere d’un colpo le nostre abitudini cognitive o percettive, che inducono a pensare che un tempo senza moto è un assurdo. Essi però bastano per riportarci alla stesso tipo di aporia prospettata in precedenza. Il tempo sembra assumere due qualità opposte, a seconda delle cose che pervade. Esso si manifesta mobile nelle ‘sacche’ che pervadono il mondo umano, mentre si mostra ‘immobile’ laddove il dio e il vuoto permangono senza che si manifesti alcun cambiamento.
2.6. Corruttore/generatore, ignorante/sapiente?
Si riconosce da Esiodo in poi che il tempo è un’entità che distrugge, attraverso l’immagine di Crono che mangia i suoi figli (Teogonia vv. 459-462). E in effetti, noi constatiamo quotidianamente l’azione dissolutrice della sua corsa. Gli imperi crollano, i vivi muoiono, i colori delle tele di un quadro si scrostano, a causa del passaggio inesorabile delle ore. Il tempo può essere poi qualificato, sempre dal punto di vista negativo, come ‘ignorante’ o ‘falso’. Esso è anche quel qualcosa che ci fa dimenticare i volti delle persone che abbiamo incontrato, le cose che abbiamo studiato, gli odori e il calore di chi abbiamo amato, così come altre entità ed esperienze. Il tempo è sanguinario. D’accordo, d’accordo: lo accetto.
Ma bisogna pure accettare il suo opposto. Il tempo si manifesta in più come quel qualcosa che porta a compimento alcuni processi vitali e genera qualcosa di nuovo. Dopo circa nove mesi, nasce il bambino; il frutto matura in estate; il mio amore verso la persona con cui convivo si fortifica e prende vigore, quanto più passano i giorni trascorsi insieme. Secondo lo stesso principio, si può aggiungere che il tempo appare anche essere ‘sapiente’ e ‘vero’. Con la pazienza di ore, giorni o anni di studio, posso apprendere perché e come le piante producono ossigeno, o fare tante esperienze di vita che mi permetteranno di conoscere qualcosa sugli esseri umani e sulla storia. Non disperarti, dunque, perché questa entità sanguinaria è anche la fonte delle tue gioie e delle tue conoscenze. Ma non rassicurarti: il tempo che culla i tuoi piaceri e il tuo sapere ti sta anche dolcemente portando verso un’umida tomba.
Ciò che risulta essere più sconvolgente in assoluto, tuttavia, è che questi variegati fenomeni temporali (sanguinari-generativi, ignoranti-falsi e sapienti-veri) si producono insieme, spesso nell’identica persona. Una donna incinta potrebbe sentire crescere, nei nove mesi di attesa, tanto il figlio che prende forma nel suo grembo, quanto i germi del tumore che la strapperà alla famiglia. L’apprendimento di un nuovo concetto avverrà contemporaneamente all’oblio di molti ricordi d’infanzia. È proprio insomma per questa sua duplice natura che si può risolvere la difficoltà evocata già da Aristotele, che si chiedeva se fosse meglio definire il tempo come saggio o come stolto. Possiamo supporre che esso sia sapiente e stupido insieme[10].
Tuttavia, Aristotele aderiva a una conclusione diversa. Il tempo è per natura distruttore, ignorante, falso, mentre i suoi effetti generativi, sapienti, veri sono tali solo per accidente. Esso accompagna, infatti, il moto e il cambiamento, che nella loro essenza portano gli oggetti fuori da sé (Fisica IV, 221a e 222b). Tale distinzione pur sottile mi lascia perplesso. Anche la generazione è un moto o cambiamento che porta fuori da sé: la donna che partorisce non è più la stessa di prima, perché ora è madre ed è cambiata nel corpo, nella mente, nelle relazioni. Inoltre, un evento distruttore può costituire un evento generatore, e viceversa. L’avvento del tumore può essere anche il sorgere della vera consapevolezza della propria mortalità, accettata la quale si comincia a regolare meglio gli anni di vita rimasti. O ancora, l’azione distruttiva del tempo può riguardare anche le ferite che ho subito in passato: il tempo che dissolve la memoria di una cosa sgradevole mi genera un senso di liberazione e felicità. Ma se anche la sottigliezza di Aristotele fosse vera, essa lo sarebbe dalla prospettiva logica. Sul versante ontologico, sia i processi che sono distruttori per natura che quelli generativi per accidente produrrebbero comunque effetti concreti. Il tempo che secondo la logica è solo sanguinario risulta essere, secondo la materia, un mostro che genera e distrugge con identica scioltezza.
Ci si potrebbe poi spingere ancora oltre con la divisione e indagare se il tempo assume una delle due qualità che compongono ulteriori coppie di opposti. Per esempio, è vivo o morto? È buono o cattivo? Salva o danna? Ritengo, però, che da qui in avanti non faremmo che frantumare le coppie ‘corruttore/generatore’ e ‘ignorante/sapiente’ in una miriade di specie, perché le qualità menzionate sono in fondo concomitanti sia della corruzione che della generazione, sia dell’ignoranza che della sapienza. Facendo pochi esempi:
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Il tempo sembra essere vivo quando genera in noi piacere e gioia, come nelle ore passate danzando, facendo l’amore, conversando insieme;
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Il tempo sembra essere morto, laddove produce in noi noia (come in 45 minuti di spettacolo pretenzioso);
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Il tempo sembra essere buono se, portando allo scoperto (= facendo conoscere) il criminale, fa sì che la giustizia faccia il suo corso;
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Il tempo sembra essere malvagio tutte le volte in cui mi fa dimenticare (= ignorare) i bei ricordi passati, o strappa i genitori ai propri figli, i figli ai propri genitori;
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Il tempo sembra salvarci dandoci la soluzione di un problema rimasto a lungo irrisolto;
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Il tempo sembra condannare intere specie viventi alla distruzione, come nelle ere in cui il cambiamento climatico eliminò i dinosauri.
Sicché un tempo corruttore/generatore e ignorante/sapiente sarà anche morto/vivo, cattivo/buono, dannatore/salvifico, se queste sei qualità sono appunto concomitanti a quelle due coppie fondamentali. Ci ritroviamo di fronte, per l’ultima volta, a una strana entità, che genera e corrompe, procura il bene e il male, rende sapienti e ignoranti, salvaguarda qualcosa e condanna all’oblio.
2.7. Un puro neutro?
Non potendo dividere ancora oltre, dobbiamo tornare alla domanda iniziale, sfruttando al meglio questo confuso bagaglio concettuale. Cos’è il tempo che costituisce la materia scolpita dall’artista? Il risultato dell’indagine dialettica è che esso è quel qualcosa che ora assume una qualità, ora quella che le è contraria, ora entrambe le contrarietà insieme[11]. Anche questo pare essere, tuttavia, ancora troppo generico. Che significa infatti dire che il tempo ora diviene, ora è tutte queste qualità?
Un classica soluzione metafisica è dire che esso è il sostrato delle forme: un qualcosa di soggiacente e permanente entro cui hanno luogo i vari fenomeni, che trasmutano reciprocamente. Così facendo ci avviciniamo a una soluzione, ma incorrendo in almeno due errori categoriali. Da un lato, parleremmo del tempo come di una realtà statica, che non conosce mutamento. Il sostrato in sé non deve infatti a sua volta mutare, se deve essere ancora sostrato. Ma abbiamo visto che il tempo si muove, si divide, e così via. Esso non è allora sostrato. Dall’altro, con tale ipotesi metafisica tratteremmo il tempo come uno spazio, ossia non potremo più distinguere le due entità tra loro. Il sostrato è, infatti, una realtà spaziale, dato che fa da ricettacolo per cose, qualità e fenomeni. Se il tempo fosse ‘sostrato della forme’, allora avremmo uno spazio che si sovrappone allo spazio in senso proprio, il che è assurdo. La pur promettente soluzione che stiamo considerando procura, insomma, più problemi di quanti non ne risolva. Occorre o rinunciarvi, o riformularla in altro modo.
Ora, quando l’indagine razionale fallisce e si arena, la sola via possibile che rimane aperta è quella dell’ipotesi poetica. Essendo un tipo del tutto impoetico, dovrò per forza rubare le parole a un poeta e procedere goffamente sulla sua scia.
Nel suo mastodontico romanzo L’uomo senza qualità, Robert Musil teorizza (soprattutto attraverso il personaggio di Ulrich) la figura di un essere umano ‘neutro’. Mentre tutti gli altri individui si cristallizzano nei pochi caratteri che – col passare degli anni – arrivano a costituire la loro identità personale, professionale, sessuale, ecc., questo individuo decide consapevolmente di non definirsi in una manciata di proprietà, ma di assumerle poche, tutte o nessuna all’occorrenza, a seconda della situazione in cui si trova[12]. La sua neutralità può allora essere descritta come segue. Essa è la capacità di assumere tutte le qualità possibili, senza però esserne o possederne mai davvero nessuna.
Cos’è dunque il tempo, secondo un analogo ragionamento poetico? Un puro neutro, che assume tutte le qualità perché, nella sua essenza, non ne possiede nessuna.
Si è così giunti a un’idea poetica della materia del tempo, del tutto diversa rispetto al materiale di uno scultore ordinario. Di norma ogni materiale manifesta qualità definite, a cui l’artista deve soccombere e obbedire. Se uno scultore decidesse di lavorare il legno, non potrà pretendere che sia malleabile quanto l’argilla e costringerlo ad avere caratteristiche ‘argillose’, sicché il suo operato sarà per forza condizionato. Il tempo fa eccezione, invece, perché è come un blocco lavorabile che può assumere tutte le forme e le qualità, con una sorta di quasi divina indifferenza.
§ 3. Totalità, tempo, teatro. La danza delle forme
Tenendo presente i risultati balbettati del § 2, possiamo adesso tornare alla questione specifica di che rapporto vi sia tra temporalità e teatro. La formula di Tarkovskij dello ‘scolpire il tempo’ induce a pensare che quest’ultimo sia una specifica qualità della prima. Il teatro è forse il tempo che assume una certa forma tra le infinite possibili. Ma questo solleva altri problemi. Di quale forma dobbiamo precisamente parlare?
Qui occorre fare chiarezza partendo da una distinzione, secondo me convincente, di Claudio Morganti[13]. Sintetizzandola all’osso, essa prevede che il teatro non sia esattamente identico allo spettacolo, ossia all’apparato formale riproducibile, controllabile e più o meno sempre identico, che imbriglia il tempo della scena. Esso è un qualcosa che emerge all’interno di tale struttura come nuovo o inatteso e che l’attore non può sperare di trovare sempre. Il teatro è infatti una combinazione della volontà dell’artista di uscire dal territorio noto della sua tecnica e di scoprire questa piccola cosa non preventivata dalla forma spettacolare, facendone dono allo spettatore che gli ha delegato la ricerca e aiuta l’attore con un ascolto attento. Ora, la distinzione di Morganti così sintetizzata ci aiuta ad evitare un potenziale errore. L’atto dello ‘scolpire il tempo’ per dare alla temporalità una certa forma sembra più aver a che fare con la sfera dello ‘spettacolo’ che con quella del ‘teatro’.
Del resto, possiamo facilmente riuscire a descrivere gli apparati spettacolari, avvalendoci della griglia delle qualità del tempo che abbiamo elaborato. Potremmo pensare che uno spettacolo di cinque atti comici che intenda solo divertire assuma le qualità ‘divisibile’ e ‘sensibile’, dato che non stimola affatto la mente e non è compatto o indivisibile nella sua struttura come un monologo. O potremmo immaginarne uno di qualità ‘infinita’. Tale sarebbe un lavoro che una compagnia di artisti si trasmette di generazione in generazione, aggiungendo sempre più particolari, vicende, peripezie e che non smette mai di essere portato sulla scena. O ancora, potremmo trovare spettacoli che manifestino l’azione simultaneamente ‘corruttrice’ e ‘sapiente’ del tempo. Si pensi a tal riguardo all’Edipo re di Sofocle, dove la scoperta della verità da parte dell’omonimo protagonista coincide con la distruzione di sé e della felicità passata.
La casistica potrebbe continuare, descrivendo una fenomenologia delle qualità del tempo dello spettacolo sempre più ricca e complessa. Ci accontentiamo di notare qui, però, che la temporalità così scolpita è condizione certo necessaria, ma non sufficiente, per evocare il teatro. Se infatti questo è sempre una sorta di piccola eccedenza non prevista rispetto allo spettacolo, il tempo troppo formalmente connotato non può avere carattere ‘teatrico’ o ‘teatrale’. Da questo punto di vista, l’attore che puntasse solo a dare una forma alla temporalità sarebbe ineccepibile quanto alla tecnica, e tuttavia non farebbe emergere un gesto di rara/inaspettata poesia sulla scena. Dove si dovrà allora guardare?
Qui formulerò un’ultima ipotesi. La forma dello spettacolo consiste nel dare solo una o poche qualità al tempo della scena. Il teatro costituisce invece il tentativo utopico (dunque, impossibile e fallimentare) di lavorare su questa stessa forma spettacolare per accedere alla temporalità nella sua interezza. ‘Teatrico’ o ‘teatrale’ sarebbe così il gesto artistico di usare il tempo della scena per attingere alla totalità del tempo.
Anche questa prospettiva non spiega però quasi niente. Come intendere il desiderio di accedere a tutto il tempo? Da questo punto di vista, ci possono essere forme sia positive che malsane, sia oneste che disoneste, sia umili che tracotanti. L’ipotesi che ho formulato potrebbe forse funzionare solo specificando con quale atteggiamento etico un attore si pone verso la sua utopia e con quale gusto accoglie il fallimento. Mi pare che ci siano tre condotte possibili.
La prima è che il teatro irrompe se l’attore fallisce nel tentativo di assumere tutte le qualità del tempo in un unico gesto, su cui verrebbero concentrate una massa di sensazioni e di concetti. Qui assisteremmo al fallimento di una sovrumana volontà di potenza, che vuole dominare l’abisso della temporalità e, pur mancando lo scopo, si bea della sua manifestazione di forza. Il problema di questa condotta etica consiste nella sua eccessiva avidità e tendenza prevaricatrice. Un attore con un tale desiderio di dominio non si sentirebbe mai appagato dalla sua attività e, inoltre, non entrerebbe in una relazione autentica con il pubblico, che abbiamo visto essere – accennando alla questione della ‘delega’ – come essenziale per evocare teatro. Tale individuo recita solo per manifestare la sua presunta superiorità. Ma se è così, la sua attività non sarebbe poetica, perché la poesia richiede condivisione sincera, di mente e di affetti.
Un secondo atteggiamento – che è il perfetto speculare della volontà di potenza, ma in negativo – è pensare al teatro come un modo per ‘forare’ il tempo e, dunque, per uscirne. Un attore potrebbe far ciò tentando di recitare il suo spettacolo senza dare alcuna qualità al gesto, al moto, al suono, e via dicendo, ossia riducendoli al minimo. La strada in questione sarebbe quella di ‘asciugare’ la recitazione fino a dare l’impressione di non fare nulla. Mentre l’aspetto utopico e fallimentare consisterebbe nello sforzo di raggiungere il fondo neutro che si annida negli abissi della temporalità. Se del resto provo a spogliare lo spettacolo di ogni qualità, mi avvicino quanto più possibile a quel qualcosa di informe che soggiace a tutte le forme.
Questa versione risulta più plausibile di quella dell’attore animato da volontà di potenza. E tuttavia, ha anch’essa i suoi difetti costitutivi. Anzitutto, dalla prospettiva logica, uscire dal tempo sarebbe un’ambizione contraddittoria. Quando parliamo di tale uscita, ci si riferisce, in realtà, all’entrata in un’altra dimensione temporale. In particolare, all’ingresso nella qualità del tempo ‘immobile’ che abbiamo individuato nella divisione condotta nel § 2.6. Per il resto, chi pensa di trovare qui il teatro incorre nella stessa solitudine di cui soffre colui che ha la volontà di potenza. Uno spettatore non potrebbe seguire l’attore in questo suo tentativo estremo, per il semplice fatto che la sua attività non manifesterebbe energia sufficiente per trattenere i sensi o la mente del pubblico sulla scena. Un teatro del genere sarebbe forse concettualmente molto interessante, ma molto noioso per la concreta prassi scenica.
Vi è poi un’ulteriore difficoltà che hanno in comune queste due condotte: il fatto che l’una trascura il buono che pure l’altra possiede. Chi cerca solo la potenza si nega la gioia del distillare un gesto, un movimento, o altro, rendendolo più pulito e capace di affascinare lo spettatore. Chi si pone sulla via dall’assoluta impotenza trascura, invece, l’arricchimento che si prova cercando di dare a uno spettacolo delle variazioni sempre diverse e inconsuete, ad esempio accelerando un ritmo, o aumentando l’estensione nel tempo di un movimento. Questi due cercatori di teatro abdicherebbero, insomma, a possibilità vitali che pure sarebbero loro accessibili, in modo pari al libertino che (pensando solo al piacere sensuale) si nega le gioie dello studio / della preghiera e al monaco che (dedicandosi solo a dio) trascura l’amore di altri esseri umani, le conversazioni a tavola, il motto e i giochi che facciamo in compagnia. Perché queste indebite restrizioni? Perché vivere solo da monaco o solo da libertino, quando si possono avere le gioie del bordello e del monastero? Dice la prostituta Marion nell’atto I del Dantons Tod di Büchner:
Gli altri hanno giorni di festa e giorni feriali, lavorano sei giorni e al settimo pregano, ogni anno si sentono commossi al loro compleanno e ogni anno meditano su quello nuovo. Io non capisco niente di tutto questo: non conosco né sosta né mutamento. Sono sempre e soltanto una; un perpetuo desiderare e possedere, un ardore, un fiume. Mia madre ne è morta di dolore; la gente mi segna a dito. E questo è stupido. S’arriva sempre allo stesso punto, là dove più si ha gioia; il corpo, le immagini di Cristo, i fiori o i giocattoli; sempre lo stesso sentimento; chi più gode, più prega[14].
È allora forse in questa via mediana, tra il ‘sì’ della potenza e il ‘no’ della nolontà, che un attore può trovare il teatro, andandone in cerca con gli spettatori. Lo spettacolo viene qui concepito non come una forma che vuole racchiudere tutto il tempo, o che bisogna distruggere per uscire dai suoi confini, bensì come uno spazio sicuro entro cui provare a giocare con le sue forze. Il tempo di un attore diventa così ‘teatro’ quando, a ogni replica di un lavoro, cerca di infondere al gesto già collaudato nuove qualità, altri ritmi, forme che erano rimaste non invocate nei giorni precedenti. Anche se è un po’ improprio spiegare un’arte usando un’altra arte, l’analogo più prossimo al teatro così descritto è quello della danza: un movimento rigido in cui un ritmo ripetibile è sempre presente, ma dove la persona che lo ha acquisito può variare secondo il suo stato d’animo, del tipo di ascolto del pubblico presente, delle persone con cui si trova a danzare insieme.
Si tratta sempre di un’utopia di un teatro ‘senza qualità’, ma in un altro senso. Esso non rinuncia alle qualità del tempo, ma le attraversa tutte, senza affezionarsi a una sola. Se ciò può risultare inquietante per le persone che preferiscono radicarsi nel già conosciuto, ad altre (più interessate all’ignoto) la prospettiva spalancherà una libertà quasi assoluta. Non ci sono limiti alla lavorazione del tempo, se non quelli che l’artista si vuole porre. Il fallimento che accompagna inevitabilmente questa utopia è, invece, che ogni attore sarà costretto a rinunciare, con l’arrivo della morte, alle altre numerose possibilità di sperimentazione accessibili con la vita artistica. Il teatro aspirerebbe ad attraversare la totalità del tempo, ma purtroppo fallirà e riuscirà solo a percorrerne una minuscola parte, e nemmeno questa nella sua interezza. Quelle poche forze che avrà rabberciato ed evocato le vedrà poi perdersi nel fondo temporale che ha ‘scolpito’ con pervicace, amorosa sincerità.
Ma sarà ciò un male? La perdita inevitabile non sarà una delle caratteristiche preziose dell’arte del teatro, fragile perché bella?
*****
Passeggiando sulle rive del mare, vidi un giorno due bambini, fratello e sorella, intenti a quello che mi parve essere un singolare gioco. Quando un’onda era spinta sulla spiaggia, questi si stendevano a terra con le braccia spalancate, col volto teso e concentrato. Quando poi essa tornava indietro col riflusso, fratello e sorella si sollevavano ridendo, e con i palmi delle mani schizzavano getti d’acqua davanti a sé. Appena chiesi cosa stessero facendo, sentì loro rispondere: «Giochiamo a prendere e liberare le onde!».
Al sentire questa formula infantile, fui preso da commozione e sgomento. Intuì che questi bambini pensavano di giocare al mare, mentre erano il mare. E che il loro non era un gioco nel tempo: era il tempo. Avevano assimilato talmente tanto il ritmo delle onde da riuscire ad assecondarlo con precisione e leggerezza, senza stancarsi mai della ripetitività dei loro gesti.
Un attore è forse così, come questi bambini. Serio nel catturare le forze del tempo, allegro nel liberarle e vederle ricadere nell’abisso*
[1] Incontro svoltosi al Castello Pasquini nei giorni 5 e 6 maggio 2017
[2] A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, a cura di V. Nadai, Ubulibri, Milano 1988, pp. 55-76.
[3] C. Rovelli, L’ordine del tempo, Milano, Adelphi, pp. 17-111.
[4] Ma anche tale identificazione è discutibile. Un secondo potrebbe essere a sua volta frantumato in istanti per noi impercettibili.
[5] Si pensi al caso di chi non ha ancora provato soddisfazione del vuoto arrecato della sete e non può né percepire adesso cosa può dargli da bere, né ricordare dove bere. Tale è quello del neonato che deve ancora succhiare la prima goccia di latte dalla madre. Il tempo di questo infante include solo l’attesa di soddisfarsi nel futuro. Il presente e il passato non esistono invece ancora, ma appariranno quando avrà poppato la madre per la prima volta e conserverà la memoria di questa esperienza. La ‘generazione’ di questi due parti del tempo sarebbe impossibile, se la divisione triadica della temporalità non fosse almeno in parte naturale.
[6] Per approfondire, cfr. di nuovo almeno Aristotele, Fisica IV, 218b-219a.
[7] Fisica IV, 221a-b. Nel libro III dello stesso trattato, Aristotele definisce quiete l’immobilità di una cosa a cui non manca la possibilità del movimento (202a).
[8] Cfr. e.g. Silenzio, ShaKe, Milano 2010.
[9] Cfr. P.W. Milonni, The Quantum Vacuum, Harcourt Brace & Company, Boston 1954, in particolare le pp. 52-54. Sul nesso vuoto-immobilità, trasposto alla danza, cfr. il contributo di Alessandra Cristiani in questo volume.
[10] Cfr. Fisica IV, 222b. Il commento di Simplicio ad locum (p. 754) ci riferisce che questa fu anche la soluzione del poeta Eveno di Paro.
[11] Per tenere d’occhio le qualità finora individuate e che si co-implicano a vicenda, si rimanda allo schema posto in appendice.
[12] R. Musil, L’uomo senza qualità, Mondadori, Milano 1996, pp. 30, 60, 110, 124, 141-143, 241-244, 278-279, 476-477, 488, 532-533, 540, 555-557, 711-712, 735-738, 894, 911-912, 1052, 1059-1060, 1087-1091.
[13] Serissimo metodo Morg'hantieff, Edizioni dell’Asino, Roma 2011; La grazia non pensa, Cue Press, Roma 2018, pp. 63-71.
[14] G. Büchner, Teatro, a cura di G. Dolfini, introduzione di G. Guerrieri, Adelphi, Milano 2008, p. 19.
* Dedico il § 1 del testo ai membri del Libero Gruppo di Studio delle Arti Sceniche. Il § 2 va ai miei maestri (Salvatore Cardone, Fulvia de Luise, Emidio Spinelli, Francesco Verde), per avermi addestrato a ragionare, ma nello specifico dei §§ 2.5-6 a Rita Frongia, i cui lavori La vita ha un dente d’oro e Umanescenza sono stati linfa necessaria per non perdermi. Il § 3 è dedicato agli artisti che ho incontrato, così come agli amici danzatori di Trento, grazie a cui ‘ritmo’ non appare più un concetto astratto. Il finale va ai figli del Libero Gruppo: forse attori e poeti di domani. La pochezza delle mie parole invita queste persone ad apprezzare più il gesto che il contenuto.