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Marta Bevilacqua

Fenomenologia del tempo

Premessa

 

Questo scritto mette insieme tecniche di danza e interrogativi filosofici sul senso della danza nella storia, cerca di produrre un linguaggio che sia capace di aprire riflessioni sulla relazione danza e tempo (passando per verbale-non verbale, corpo-morte, rito-ritmo).

Queste pagine sottolineano una mancanza di dibattito nel panorama culturale dell’arte dal vivo, incoraggiano ad aprire lo sguardo ai temi propri della danza (oggi schiacciata dalla lettura teatral-performativa, ieri dalla stessa musica), argomentano, con riferimenti della tradizione filosofica, la fragilità della condizione del danzatore in qualità di puro corpo in movimento.

Il testo nasce come una traccia discorsiva che spera di trovare nuove forme di approfondimento e di condivisione. Perdonerete qualche commento impertinente in corsivo su carattere 9. Saltare a piè pari in caso d’insofferenza. Es. salta che ti passa!

 

 

Tema: la mia domanda è Quando

 

Il rapporto tra la danza e il tempo è viscerale. La danza è inafferrabile quanto il tempo.

Per un danzatore il tempo è un’esperienza di durata (lo stare, la presenza, la ricerca dell’equilibrio, la sospensione, l’attimo preciso della caduta, il tempo necessario del carico, lo stacco a tempo per rendere fluido un incontro e il contatto con l’altro), ed è insieme un’esperienza ritmica (il battere, il levare, il legame con il cuore, l’accordo di questo con il respiro, inspirare ed espirare – quando e dentro quale azione -, le infinite combinazioni con le quali posso staccare i piedi da terra e rendermi a mia volta ritmo). La composizione del gesto, per un coreografo, ha nella dimensione del tempo la sua più grande sfida.

Plasmare le azioni, sottrarre il corpo dal movimento finalizzato significa anzitutto lavorare sulla dimensione del tempo.

Quando. Quando. Quando.

Ma questo non può bastare. In realtà l’argomento è molto meno tecnico del previsto, è quasi ontologico (come quasi…, è anzitutto ontologico, non cercare di voler essere leggera). E allora chiediamoci ancora.

Che cos’è il tempo per un danzatore? Quali sono gli strumenti in suo possesso per plasmare la forma del tempo. Quali sono le declinazioni del tempo in danza?

Il linguaggio filosofico, e in particolare quello fenomenologico, è il solo capace di accostare il linguaggio non verbale, il linguaggio del corpo. La caratteristica delle parole della fenomenologia è la loro comprensione della corporeità. Sono parole fisiche quelle che da Jaspers in poi si cominciano a pronunciare. (siamo nel 1913, per intenderci, quando Karl scrive Psicopatologia generale…)

Parto quindi con uno sversamento della filosofia nella danza ed eredito dalla prima la pratica di farsi delle buone domande.

Sono tempi bui per la danza, è difficile aprire un dibattito su di essa che prescinda dalla critica di ciò che si è appena visto. Ce ne accorgiamo non appena tendiamo l’orecchio nei dibattiti o incontri con l’artista post spettacolo. Come tutti i post…hanno un che di depressivo, non ci sono argomenti artistici.

Il pubblico danzereccio è a caccia della storia oppure a prender come buona qualsiasi opera incompiuta, gli artisti invece a dare senso a ciò che vorrebbero solo accennare, gli interventi ambiscono ad essere note di regia, cercano, poveri loro, la drammaturgia del movimento non sapendo quali siano gli ingredienti che compongono una scrittura di movimento. Sono tempi di realismo per la danza (anziani e bambini, ammalati e disturbati, giochi di società e sport, il tutto servito su un bel tappeto bianco e mutande colorate), e quindi è davvero complesso riuscire a trovare le parole, come per me qui adesso. Sono tempi in cui la danza rifiuta se stessa perché rifiutata essa stessa dalla grande storia del Teatro, e dei suoi critici, che dopo i grandi metodi e le grandi scuole di Balletto non son più riusciti a spiaccicar parola.

Ma non demordiamo, la filosofia, come la danza, ha bisogno di tempo, di restare in attesa, di cercare e magari non trovare, e quando ha trovato (eureka!)…deve arrendersi alla fuggevolezza dell’attimo. Dove va a finire tutta la danza? Che ne resta del tempo trasformato, dello spazio ridisegnato. Solo scie.

 

 

Argomento: Il problema linguistico

 

Ebbene partirei proprio concedendoci un tempo di riflessione e di discussione intorno al problema linguistico connaturato alla danza. Senza esserci accordati su un linguaggio condiviso ci sarà difficile procedere.

La danza appare, a una prima considerazione, inscritta nell’ambito delle manifestazioni umane svincolate dal dominio della lingua, libera di esprimere i propri contenuti senza doversi servire delle regole del linguaggio ordinario: un particolare modo di comunicare, magari ambiguo ed oscuro, e tuttavia capace di svegliare dimensioni che non appartengono strettamente alla natura del linguaggio verbale.

 Se però non possiamo prescindere mai dalla intenzione comunicativa, e se la danza, come qualsiasi produzione umana, è da considerarsi in vista di un fine comunicativo, allora anch’essa non può non prevedere l’uso di un linguaggio condiviso.

Infatti ogni segno acquisisce un senso determinato se incluso in un contesto semiotico comune, una scrittura costruita attraverso pratiche sociali.

La fragilità del linguaggio della danza emerge quando ci si accorge che le sue espressioni non amano la catalogazione e non sottostanno alle regole della logica, quando ci di accorge che i suoi segni coinvolgono più intelligenze: musicale, spaziale, motoria…

Anche in un pensiero sulla danza la danza è linguaggio, e non perché il corpo è linguaggio, come frettolosamente potremmo concludere, ma perché, sull’onda del nostro secolo, con la svolta linguistica, il pensiero è sempre pensiero del linguaggio a tal punto che la stessa filosofia è sempre, in qualche modo, filosofia del linguaggio.

La difficoltà è apparentemente sciolta: per parlare di danza bisogna rimanere all’interno della forma-danza senza tentare di modellarla linguisticamente per svelare che essa è espressione spontanea di una consapevolezza: l’intraducibilità linguistica del vissuto, degli stati affettivi, dell’essere.

Più che discutere su una teoria cinestetica, più che parole su forme, su figure che ci sono già (ad esempio le posizioni della danza classica, l’espressionismo tedesco o le avanguardie americane, bagaglio che metto tra parentesi ma che i danzatori stessi ignorano…non esiste in Italia una straccio di formazione non autoreferenziale, ma perché dobbiamo solo frequentare l’Accademia di Roma per insegnare in un Liceo Coreutico?), abbiamo bisogno di recuperare il sottile linguaggio del gesto che la danza stessa sa vivificare.

La prospettiva della temporalità, del tempo come dimensione strettissima alla comprensione e alla manipolazione del gesto scritto, è una strada utile per attraversare parole e  intenzioni perdute.

Il mio contributo vuole essere da un lato un recupero delle declinazioni che il tempo ha avuto nella storia della coreografia (della scrittura del movimento) e dall’altro una sollecitazione a non mollare l’attenzione su quei fondamentali teorici che ci permettono di accogliere la danza come una fenomenologfia del tempo: cosa vedo quando vedo? Che cosa viene innanzi al movimento?

Fainomai in greco indica ciò che si vede e si fa vedere. Per i greci il vedere è una forma di comprensione, è una forma di conoscenza del mondo, vedere con gli occhi è vedere con il cuore, con la pancia e con l’intelletto. Si vede quando si sente (i più saggi sanno sentire anche senza vedere uno per tutti…Tiresia). La danza è qualche cosa che si guarda e la danza è una particolare forma di mostrare: il pieno ed il vuoto, la compiutezza del gesto, e la trasformazione dell’aria. La danza non racconta, la danza muove. Un interno ed un esterno. Il movimento può produrre una storia ma questo non è importante.

La mia tesi sommersa, e indicibile in questi tempi di entusiasmo per l’insensato troppo intellettuale Marta, troppo storico, poco libero, forse un po’ frustrato (?!) – è che l’occidente non ha sviluppato la sensibilità sufficiente sulla danza perché non ha accettato, anzitutto, quella sul corpo.

Schiacciati da logica e morale siamo costretti oggi a vivere la danza come un fenomeno d’arte concettuale. Che pacchia!

Il gesto, in ogni caso e indipendentemente dalle noste sovrastrutture, trasgredisce il visibile per restituire l’essere dell’uomo nella sua perpetua incompiutezza.

Trasgredire…per trasgredire c’è bisogno di un’azione. L’emozione muove (e-motion, su questo concetto si sono accapigliati in tanti…a me piace Alwin Nikolais e la sua motion) ma l’azione trasforma e compie rivoluzioni. E’ un peccato dunque quando il dibattito della danza si ferma sul racconto dell’emozione…parliamo della scelta delle azioni e della loro concatenazione nella scrittura del gesto.

L’ambizione di ogni discorrere sulla danza si lancia verso un linguaggio inabitato, ma storicamente importante, per far emergere l’insistenza e la persistenza dell’uomo nella radura e negli eventi del pensiero.

La letteratura e la storia ci lasciamo intravedere percorsi intrecciati da suggestioni sulla danza. Penso a Paul Valery, a Nietzsche, Degas, Matisse…che vi invito a leggere e a rimirare.

Per tutti, in diverse prospettive, la danza ha un significato dirompente perché esalta le possibilità comunicative del corpo.

Infatti prima che si apra fenomenologicamente il mondo del significato, il corpo rimanda all’ opacità di un gesto pre –verbale, ad “uno stato di natura” nel quale il segno linguistico convenzionale, la parola o il segnale, è assente (non dirmi che riesci a segnare il confine tra natura e cultura perché questa roba è sorpassata… anche se le discipline motorie di oggi sembrano portare la questione in auge, rassegnati… è andata!).

La prima espressione, seguendo solo per un attimo la definizione di Cassirer, è il gesto inteso nella sua valenza simbolico-originaria, che precede ogni determinazione funzionalista: esso non è mero veicolo di significato bensì inizia il processo di significazione.

Ogni volta che ci esprimiamo, noi moduliamo la nostra espressività corporea, ogni forma di linguaggio è una forma specializzata di gestualità corporea[1]

 

“In breve ogni comunicazione di contenuti spirituali è linguaggio, dove la comunicazione mediante la parola è solo un caso particolare”[2]

 

La danza è gioco originario che si trascina nei secoli pronto ad essere modificato; esso mostra la possibilità di trasformare il mondo in espressione.

Ciò detto, resta ancora insoluto il problema di come si possa parlare di questo “gioco originario” e se un linguaggio, proprio perchè originario, abbia bisogno di essere spiegato o, piuttosto, non parli già da sé (la seconda che hai detto..cit.). Forse non resta che giocare (to play – ah!, la sintesi anglosassone) e giocare, ci suggerisce Huizinga in Homo Ludens, è una cosa seria.

Probabilmente che il pensiero e il linguaggio possano occuparsi di forme, come la danza, dalla consistenza pre-linguistica, resta una pura illusione; ma se la danza è un linguaggio, allora, in qualche modo, ha un codice attorno al quale è possibile stendere delle condizioni per la sua comprensione. Concediamo poco tempo alla riflessione o all’analisi artistica sulla dimensione del tempo. Questa velocità esistenziale e culturale, che guardacaso coincide con uno sfaldamento progressivo del corpo, temo ci farà perdere dei fondamentali.

Quando penso ai fondamentali nella danza penso anzitutto all’azione del giro e del salto.

Per me è come se senza giro e senza salto non ci fosse danza. Ma è roba superata pure questa!

Provo a usare delle parole in flusso.

Il giro: la terra, l’universo, un punto che si propaga, il cerchio, la collettività, Matisse, lo sballo.

Il salto: sforzo (streben), piegare le ginocchia e spingere, per salire devo scendere, per scendere devo salire. un’azione che tiene insieme gli opposti, sfidare la gravità, elevazione, superamento dell’ostacolo, virtuosismo estemo, percussione, e ancora sballo!.

 

Servendosi proprio di un riferimento alla danza, Agostino anticipa sullo statuto teorico del linguaggio verbale, ciò che in un futuro lontano la semiotica avrebbe definito come capacità del linguaggio verbale di offrirsi a indispensabile strumento di riferimento per la comprensione e la spiegazione dei linguaggi  non-verbali, tale da sancire così il primato del primo sui secondi.

 

Nel De Magistro, Agostino chiede infatti al figlio di illuminare il significato di ciascuno degli otto segni linguistici di cui si compone una frase.

Pervenuti alla difficoltà di definire una preposizione, in quel caso il segno “ex”, si apre una discussione in cui si fa riferimento alla possibilità di indicare oggetti e concetti attraverso il corpo, con il mimo o con la danza. Dice infatti Agostino:

 

“Non hai veduto come alcune persone mediante il gesto parlano, per così dire, con i sordi e che questi sempre con il gesto domandano, rispondono, insegnano e indicano tutte le cose che vogliono o perlomeno parecchie? Dato questo fatto, non si mostrano senza parole soltanto le cose visibili, ma i suoni, i sapori e simili. Anche i mimi spesso rendono comprensibili e sviluppano interi drammi con la danza”[3]

 

Il figlio però non può trattenersi dall’indicare il più grande e fondamentale ostacolo:

 

“Non ho obiezioni da fare salvo che non io soltanto ma neanche il tuo mimo danzatore avrebbe potuto mostrarti senza parole cosa significhi quell’ex”[4].

 

Su quell’ex, ovvero su quella preposizione che indica un’uscita, ci avrebbe poi lavorato Isadora Duncan. Classe 1878, la cosiddetta danzatrice scalza (ma anche la santa, la divina, la dionisiaca) impose la sua personalità in modo strordinario recuperando un senso di fuoriuscita dal codice, di trasgressione ai concetti di repertorio e di attitudine. Abbasso le imposizioni metriche della danza classica alla francese, in alto la Grecia – con fiori e tuniche – corpi morbidi e tragici.  I manuali la descrivono come una coreografa non particolarmente brillante ma dal carattere decisamente performativo: nudità, danza nella natura site specific diremmo oggi, circoli di donne, le cosiddette isadorable, veli. La Duncan ha agito come una rivoluzionaria e ha sostenuto una danza non elitaria (anche se temo che lei lo fosse, tant’è…contraddizioni d’artista).

 

E infondo la Duncan aveva ragione… è come se si dicesse che la danza è un’arte proprio perché i suoi sistemi di riferimento, anziché approdare ad una definizione, restano sfuggenti, remoti, incerti, ambivalenti, quasi assenti.

In assenza di oggetti da dire, come faccio a parlare di danza?

Sollevarsi da questo quesito, significa trovare la giusta calma per conoscere la profondità, sentirne la fatica ed accettare la re-azione del corpo alla mancanza di elementi d’appoggio, concedersi un tempo di riflessione come questo...

E’ nelle occasioni di spaesamento e autenticità che la definizione di Heidegger dell’uomo come luogotenente del nulla si fa calzante. Mi viene in mente lui, mi spiace.

E’ proprio in quel luogo, nell’ascolto del sottosuolo esistenziale, che il danzatore converte il mondo in potenza di significazione.

E’ in quello stato che il danzatore diventa un  parlante capace di trovare nel gesto il suo bacino di dialogo.

 

“… essendo un potere di espressione naturale, il corpo converte in vociferazione una certa essenza motoria, […] proietta un movimento effettivo, una intenzione di movimento”.[5]

 

L’artista che danza crea traducendo sé in opera d’arte. E’ un po’ forte come espressione ma l’ha detta Friz. Non crea dal nulla ma attinge, molto spesso, dalla sua biografia, dalla sua fantasia, dalla sua immaginazione il materiale dell’arte e l’essenza del mettere al mondo.

 

“Solo nella danza io so parlare i simboli delle cose più alte” tuona  Nietzsche nello Zarathustra (il soprannome di Nietzsche  in famiglia e con i pochi amici è Friz).

Ma ciò è possibile solo svincolandosi dal labirinto circolare della ragione e recuperando le grammatiche del movimento.

Le cose più alte possono essere viste, nel senso greco di comprese,  dall’entusiasmo del danzatore, dal suo sì alla vita, dall’ esuberanza del  vigore fisico e dalla familiarità con il linguaggio astratto.

Entusiasmo… non è semplice eccitazione; è il dilatarsi e l’affiorare di tutta la potenza che c’è.

Entusiasta è il corpo in Dio (en theos) ma che non abbandona sé per stare in Dio.

Riconoscente rispetto a questa unità e arando a fondo, come gli è consueto, le zolle che sostengono gli altopiani esistenziali, sentiamo ancora Nietzsche, Friz, in Ecce homo: “…quando il corpo è entusiasta non c’è da preoccuparsi dell’anima”[6].

La danza non esalta la carnalità rispetto all’anima, non chiede al corpo di esplicitare la sua gestualità.

E’ una forza che tesse il distacco dalla realtà codificata e si pro-tende per entrare in contatto con l’architettura dell’uomo interiore.

Non è un caso che una delle possibili radici etimologiche della parola danza si faccia risalire dal sanscrito Tan, che significa tendere, allungare.

Il rapporto della danza con il simbolo, con il sacro, con il profano, con il limen, con la visione, con la tecnica…

Comunione, contemplazione, osservazione, evento.

Il linguaggio della danza cura la relazione tra queste parti che non si sono ancora incontrate ma che si amano profondamente, tra quegli elementi che l’Occidente ha solo intravisto e che il logos ha represso per note ragioni di controllo. (soggetto : corpo = oggetto : logos, intelletto)

Partire dal gesto, spiarlo nelle epoche e nei modi di vivere il corpo, si farà interessante se, anche solo per un attimo, concedessimo una tregua all’egemonia del pensiero razionale, a quella smania di capire tutto.

 

 

Relazione tra le cose.

Il tutto è relazione.

Panismo e panico: danza.

 

 

Argomento: la verità del gesto

 

Ma che cosa significa partire dal gesto? Quale gestualità viene presa in considerazione?

Guardiamo Anne Teresa de Keersmaeker come la pensa sulla frizione tra parola e danza, e sulla potenza delle loro tragiche combinazioni interiori.

Monolog van Fumijo Ikeda poh et einde Ottone/Ottone – Anne Teresa De Keersmaeker

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Il gesto, come espressione condensata e deposito della nostra personalità, è il linguaggio sotterraneo del corpo, è la voce inconscia della società in cui ci è capitato di nascere e di crescere.

Ogni epoca, ogni ambiente sociale, stabilisce un rapporto con il corpo che fa da filtro culturale per la percezione e che ognuno riesce poi ad avere di se stesso e del proprio fisico.

L’uomo, dice Berger, oltre ad essere un corpo come tutti gli altri animali, ha un corpo, e questa idea di possesso rimanda ad un’idea di gestione.

La gestione più o meno consapevole del corpo, lungo i secoli ha portato l’uomo ad essere ciò che “culturalmente” è, gli ha permesso di creare centinaia di tecniche del corpo[7], come se quest’ultimo, invece che essere un’entità con la quale identificarsi, fosse piuttosto un sistema a propria disposizione.

L’uomo lavora con il corpo ma, non di meno, lavora su di esso: lo veste, lo imbelletta, lo sacrifica, lo potenzia, lo trasforma più di quello che esso già non faccia naturalmente invecchiando, va più lento o più veloce.

In questa visione, ogni tecnica che s’insedia sul corpo, diventa, crescendo dentro e assieme ad esso, il tramite attraverso cui il corpo si manifesta.

Il corpo segna il limite tra natura e cultura (ah, lo riproponi quindi?), tra la folgorante semplicità della presenza biologica e la complicatezza della pressione culturale, quella pressione che consegna il nostro corpo ad una moda, ad una certa qualità di espressione, ad un certo modo di danzare.

Infatti tra il corpo e la cultura avviene una sorta di scambio con reciproci vantaggi: la cultura trova nel corpo la sua forma espressiva, lo spazio per manifestarsi,  e il corpo può altrettanto esprimersi e, direi, esistere, proprio grazie a quell’intelaiatura di comportamenti, di pratiche, di gesti che la cultura gli fornisce.
Sta in questo pertugio il legame viscerale della danza e il tempo: nel ritmo.

Nel 1935 Fernand Divoire, critico e poeta, parla del danzatore ideale come di un rythmicien ovvero uno strumento vivente di solfeggio (pensate alla differenza tra la danza moderna e la ginnastica ritmica e vi avvicinate alla posizione di Divoire. E’ certamente più sorprendente la seconda della prima, è spettacolare! Epperò… vedi Morg’hantieff). Divoire è un fun di Jaques-Dalcroze, si era diplomato presso il suo Istituto e sosteneva, come il maestro, che il gesto nelle arti va piegato alla musica e deve essere funzionale ad essa:

 

“perché il controllo reciproco dei ritmi corporei e dei ritmi sonori è il mezzo più sicuro per perfezionare insieme mimica e sensibilità musicale.”

 

Se la musica parla italiano (andante, minuetto, allegro ma non troppo), la danza parla francese (arabesque, pliè, glissade, fuetè) Grazie Luigi XV!. Nasce storicamente qui, ma filosoficamente da più lontano, l’esigenza di sistematizzare il gesto in una quantità, di rendere controllabile il soggettivo (ecco, così almeno spieghi l’equazione di prima, ma potremmo approfondire)

A grandi linee potremmo individuare tre macrocategorie sulla relazione danza e ritmo (aggiungo quale osservazione disordinata):

 

  1. SPIRITUALE/COLLETTIVO

la danza sta a metà tra la preghiera e l’opera d’arte, non possiamo dimenticarlo. Prevede una connessione con il tempo, con la natura e scongiura la morte (vedi la danza macabra, oh, chiamiamo le cose con il loro nome!) e semmai cerca di ingraziarsela. Di tenerla lontana, distrarla.

 

 2.RITMICO/MUSICALE

Dal Re Sole in poi (1745) la danza diventa ancella della musica e quindi del ritmo. Urgenza di controllo e necessità di dispendio (vedi Bataille –concetto di Potlac), di codificazione del limite.  Il ritmo / sfiguramento del corpo grazie a tale limite.

La danza conserva la sua anima di elevazione dalla carne semplice, dalla carne quotidiana.

In questa fase si danza sulla musica e se ne assorbe anche il vocabolario

Questa subordinazione alla musica si interrompe lentamente lungo la seconda metà del Novecento.

 

 

 3.INTERIORE (vago…mancanza di parole…):

distensione dell’anima o corpo senz’anima. Da qui i grandi teorici del gesto moderno e poi contemporaneo.

La danza si svincola dalla musica e la musica si svincola da se stessa (Cage). Tutto è gesto.

    Con la nozione di gesto, di matrice labaniana ( laban notation) l’ambiente sonoro, lo spazio sonoro, per un attimo entrano in secondo piano ed emerge il tempo delle articolazioni corporee (ebbene si, anche loro hanno un tempo proprio).

 

 

Ciò nonostante, nonostante le differenze temporali sovraesposte, il corpo resterà legato al suo destino mortale.

L’impossibilità di sottrarsi al ciclo naturale, lo farà restare un dato naturale, una materialità biologica.

“Ogni espressione mi appare sempre come una traccia, l’idea mi è data solo in trasparenza, ogni sforzo di chiudere la mano sul pensiero cha abita le parole ci lascia tra le dita solo un po’ di materia verbale.”

Maurice Merleau-Ponty, Segni, Cit.  Pag. 123.

 

 

Rito e ritmo

 

La danza custodisce le orme del sacro, essa sa ancora essere solida come un rito.

Infatti prima che il processo di decostruzione del corpo raggiungesse gli esiti di cui oggi ogni occidentale porta le ferite, il corpo veniva impiegato nella danza e la danza nel rito  e il rito nel rit(m)o dell’esistenza umana.

Atmosfera religiosa, sacralità del gesto, pratica sociale e collettiva si pre-occupano e occupano il mondo della vita (Lebenswelt dice Husserl e prima di lui Jaspers).

 

L’arte, come sostiene Darreault, ha dalla sua parte la verità della finzione, e questa cambia la vita.

In questo senso ogni danzatore è il simbolo di un risveglio diretto sul mondo e dei suoi ritmi; solo allora danzare diventa interessante alla vita e fa nascere interesse per la vita.

I contrasti che un percorso artistico sa spianare, liberano la creazione.

Tuttavia, come ben precisa la semiotica, perdura la differenza tra un processo espressivo e un processo creativo.

L’esprimersi riguarda infatti una sfera emotiva acerba e inconsapevole. La creazione, al contrario, è certamente un processo più raffinato e consapevole all’interno del quale ciascuno traccia una mappa, individua dei codici espressivi finalizzati alla comunicazione.

 

Guardiamo un frammento di questo corto premiato al Festival Dance on Screen nel 2001 dal titolo Queens for a day.

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Danzatori e coreografi cercano di combinare gli elementi costitutivi di un lavoro che, da un lato indaga le occasioni del movimento in contesti performativi, di produzione artistica; dall’altro tendono uno sguardo costante alle questioni epistemologiche che la danza sa portare alla luce all’interno dei linguaggi non verbali.

Si continua tuttavia a parlare di tracce, di isole di senso, di frantumi creativi sui quali il linguaggio può solo accennare.

E’ come se la danza fosse un’allegoria il cui cuore rappresentativo riguardasse il legame tra senso e movimento.

 

“I legami tra senso e movimento sono indispensabili per vivere, ma essi dipendono sempre da presupposizioni che di solito sono o assolutamente inaccessibili alla coscienza o momentaneamente non esaminati nell’immediatezza dell’azione.

C’è tempo soltanto per un briciolo di coscienza”[8].

 

Guardiamo Lamentation di Martha Graham anno 1930…di tutto voleva parlare eccetto che della condizione di elevazione attraverso la danza. Il corpo è il luogo della contraddizione e della contrazione (contraction).

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Per la Graham, tra gli altri, là dove i confini delle cose si perdono o cozzano tra loro, risiede tutta quell’eccedenza che la gestualità quotidiana non rivela, e al contempo, quella violenza che inaspettatamente tradisce la normalità.

Lontana mille miglia dai lustrini dell’estetica fine a se stessa, la danza è percorso veritiero e universale. Ogni singolo gesto, per il metodo Graham, diventa la firma invisibile che noi imprimiamo sul mondo, l’apertura ai canali della relazione, l’aiuto e il contagio che l’altro può offrirci.

Scrive sull’argomento Aurel Milloss (che io amo per la sua distinzione tra coreosofia e coreologia):

“[…] le cose che la danza esprime sono esprimibili, appunto, soltanto con la danza”[9].

 

E Pina Bausch a seguire… “Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti, ma ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che cosa fare. A questo punto comincia la danza”.

 

Lanciamoci allora nella visione di grandi opere danzate, perdiamoci nel movimento e dimentichiamo ogni parola detta. Enjoy the dance.

 

Le reverse dansants, sur les pas de Pina Bausch 

 

 

 

 

 

 

 

 

Korper – Sasha Waltz

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[1] Ci si riferisce al senso della bodility gesture in Collingwood

[2] Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, p., 55

[3] Agostino, De Magistro, 3, 5-6, pag., 17

[4] Idem, cit., pag., 17

[5] Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, pag.,       56

[6] Nietzsche, F., Ecce homo, cit., pag. 56

[7] in Sociologia e Antropologia (Parigi, 1973), Marcel Mauss dedica un capitolo       alle Tecniche del corpo ovvero a quell’insieme di pratiche ascetiche della         cultura mistica che spesso vengono chiamate in causa, erroneamente, per           comprovare la svalutazione del corpo.

[8] G. Bateson, Dove esitano gli angeli, cit. pag. 150, Adelphi, Milano, 2002.

[9] A.M. Milloss, Stefano Tomassini (cura di),  cit. pag. XXIX, Leo S. Olschki,       Venezia, 2002.

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graham
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NOTE:

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