Bombardare la quarta parete.
Verfremdung. Bombardare la quarta parete Un intervento in forma di lettera di Claudio Morganti
di Claudio Morganti 3 febbraio 2011
Dopo l’articolo di Graziano Graziani sull’epica, l’etica e il pop e dopo la mia risposta (Contro il pop), Claudio Morganti mi ha scritto alcune mail su come andrebbe intesa, nell’unico luogo teorico possibile – cioè sulla scena – la verfremdung brechtiana e su quello che ho definito “drammatico”. Sono riflessioni cruciali e credo che meritino di essere lette dallo stesso pubblico che ha seguito il dibattito aperto da Graziano sulle forme epiche del teatro contemporaneo (a.s.)
1.Verfremdung
La tecnica dello straniamento andrebbe intesa come un elevato concetto da considerarsi in maniera trasversale e non come “forma” da individuare ed applicare. L’attore dovrebbe innanzi tutto capire dove sta la “libertà nell’agire la scena”, poichè i moduli formali applicati reiteratamente (le presunte verità individuate) non sono azioni degne di uomini liberi, o se preferisci, non sono atti degni di liberi attori. Del resto, l’attore più Brechtiano che io conosca è Eduardo De Filippo. Il freddo.
Potrei pensare di recitare togliendo tutte le vocali dalle parole. Perchè no. E poi potrei provare a giustificare la cosa in questo modo : togliendo senso alle parole mi allontano dal coinvolgimento e dal personaggio, vi partecipo solo nella misura in cui mostro il mostrar me stesso che svolge un compito. Potrei in questo modo, creare uno stile, lo stile “avocalico” e potrei forse avere imitatori ed epigoni. Ma come farei a raschiarmi di dosso la crosta mortale della “replica”, del “modulo avocalico acquisito” e soprattutto quello stucchevole spettacolo del mostrar se stessi tout court? Credo che l’unico modo onesto che esista per “mostrare che si sta mostrando” sia bombardare la quarta parete. Ma bombardarla sul serio, non cambiargli la tappezzeria (come per esempio fanno i cabarettisti nostrani). Bombardare la quarta parete con l’arma della consapevolezza e della sana ragione. So bene che gli uomini, per qualche strano motivo che io non comprendo, sono portati a credere soprattutto in ciò che non vedono, ma sessant’anni dopo Brecht dovrebbe essere ormai aquisito il fatto che la quarta parete NON C’E’ !
Dunque, a mio modo di vedere, Eduardo il freddo, era uno che aveva tre pareti finte alle spalle e l’infinito davanti. Dove l’estremo rigore coincideva con un’ estrema libertà. Mi rendo conto che a citare Eduardo si fa la figura del vecchio, ma se parliamo di “recitare” (o meglio “ri-citare”) bisognerebbe dare ad Eduardo un’ attenta occhiata. Solo un’occhiata, niente di più, ma attenta. Per dirla con Brecht (forse, ma forse anche con Mejerchol’d e Brook-Oida, e pure Vachtangov e Decroux e guarda un po’ financo Jouvet) l’attore non deve “scuotere i suoi emotivi nervi estremamente compiaciuti che si scuotono nello spasmo di mostrare che si sta mostrando” ma semplicemente “evocare circostanze”.
Dedico queste mie insufficienti riflessioncine a tutti quegli attori perduti tra Stanislavskij ed il training e anche a tutti quei critici semplicemente perduti, perduti come me.
2.Post-scriptum: sul drammatico
Quel che tu chiami drammatico dovrebbe essere quella cosa che (Jouvet) “viene dopo il dire” e quella cosa che (Mejerchol’d) “viene dopo il movimento”.
Durante una prova di “Madre coraggio” Brecht fece mettere, “a tradimento”, dietro una quinta, la foto del fratello appena morto in guerra, dell’attrice che faceva madre coraggio, per darle una “scossa” di ordine emotivo. Certo lui non lo avrebbe mai ammesso. Avrebbe detto “per motivare maggiormente il discorso che madre coraggio fa sulla guerra” ma comunque… una bella carognata!
E fin qui, rimaniamo comunque nella dimensione della scena. Ma tutto ciò che è organizzato drammaticamente ( si può dire anche drammaturgicamente, cioè la zona che pertiene alla dimensione “temporale” del teatro) non è detto che susciti “drama” nello spettatore. Perché c’è anche una dimensione drammatica (di azione e movimento) che pertiene allo spettatore. Come attore non mi devo emozionare, ma come spettatore perché non dovrei? La commozione (muoversi con) che provavo quando ascoltavo e vedevo Carmelo o Neiwiller, o quando vedo Danio, la Giordano (e molti ne sto dimenticando, Leo, Cecchi…), quella particolare commozione, dicevo, è data certo da una forte componente soggettiva, ma soprattutto da un’ indiscutibile esposizione all’arte dei succitati attori. Mi commuovo quando guardo (ma dovrei dir meglio “quando ascolto”) Danio lavorare. Non è quel che lui racconta, non mi commuovo per le sorti dei suoi “matti”, ma per come lui sta in scena. Ah, un’altro attore che mi intenerisce il cor per la trasparente onestà del suo stare in scena è Cesar Brie. Ma, ripeto, ogni volta che un attore si emoziona, o mi vuol far vedere quanto è bravo o quanto è intelligente, il dramma dentro e fuori di me si dissolve. E si dissolve ancor più irrimediabilmente ogni volta che vedo un qualcuno in scena che è convinto di far cose che nessuno al mondo prima di lui ha fatto! (un piccolo sfogo, perdono).
In realtà, con buona pace di Craig (e co.) vi è un istante in cui il corpo sulla scena e l’arte coincidono e quell’istante si chiama teatro. Tutto il resto è spettacolo.
3. La “forma nuova”
(…) Veniamo alla domanda di Graziani, quella grossa e forse unica possibile: cosa consente agli attori di essere credibili di fronte a chi li sta guardando? Ecco… che cosa? Forse la sempiterna spasmodica ricerca di una forma “nuova“ che surclassi (e facilmente dimentichi) le forme “vecchie”… non so…
Negli anni 70 (ricorderai!) si poteva assistere a spettacoli di forma “altamente sperimentale” recitati però da attori di impostazione “stabile”. Il mix era imbarazzante. Ho un amore incrollabile per Rem e Cap, ma ricordo che perfino lo straordinario Remondi era allora, a tratti, leggermente fuori fuoco. Eppure quella era la “forma” nuova, quella che avrebbe surclassato le vecchie.
Ma non sarebbe piuttosto auspicabile un sano caotico continuo fluttuare di forme? Un fiume di forme che nel loro formarsi mai si fermano? Ma talmente “correnti” da rendere vano qualunque tentativo di specifica osservazione? Tanto da farci dire “beh, allora vediamo un po’ la sostanza”? E la sostanza credo che tenga almeno un piede proprio dentro la domanda “cosa legittima la presenza di un attore sul palco?” Ma forse bisognerebbe prima rispondere alla domanda “cosa legittima il palco?”
E ora vengo alla tua risposta (Contro il pop ndr). Tocchi un nodo “sostanziale” (son pedante perché mi pare proprio che forma e sostanza non sempre coincidano). Rilevo che lo tratti con una certa cautela, direi con prudenza . “Come mai non si osa più parlare di poesia?” Questa domanda andrebbe urlata in un megafono (sì, un megafono, quello delle manifestazioni). E chiudo con semplicistico cipiglio. Che cos’è che ci lascia senza fiato di fronte ad un’ opera, per esempio, di architettura? Non è forse una sorta di potenza poetica? Di (vogliamo dirlo?) arte? A che vale una forma vuota d’ arte? In teatro, l’arte è il teatro stesso, quell’istante che non ha a che fare con lo spettacolo.
E ora richiudo con cipiglio sarcastico (immagina un forte accento ligure). Ma scusa, ma ti sembra una buona strategia, in tempo di crisi, metter su spettacoli di una montagna di ore? Non penseranno che hanno ragione a non darci soldi, tanto il teatro (e quanto teatro!) lo facciamo lo stesso? Ma questo discorso lo faccio cadere, che siccome è una sciocchezzuola richiederebbe un dialogo seriamente serrato…
4. Spregelburd, Brecht e l’importanza di “essere se stessi” (ovvero: ripensare il lessico teatrale)
Sul palcoscenico non si può essere “semplicemente se stessi”. Vita e teatro sono mondi analoghi. La vita, la realtà sono “la terra”, la scena è “la luna”. Terra e luna sono due pianeti (il secondo è detto satellite solo perchè è attratto da un altro pianeta, ma è pianeta anch’esso). In quanto pianeti sono analoghi, ma le leggi che sottendono l’uno non sono le stesse che sottendono l’altro. Se esser se stessi, nel primo caso (la terra) è possibile (anche se difficilissimo, come già Pirandello ebbe a rimarcare), nel caso della luna è impossibile.
Sposterei ora, se è lecito, il punto di vista. Adopererei, sempre se è lecito, un esempio paradigmatico : se un astronauta pretendesse di essere “motoriamente” se stesso sulla luna, non riuscirebbe a compiere neppure le azioni più semplici. Il suo comportamento sarebbe quantomeno risibile, se non a tratti addirittura ridicolo.
Saluto con estremo piacere lo sforzo di revisione del concetto di “personaggio”. Sono anni ormai che metto questa parola tra mille virgolette. Quando lavoro cerco di non usarla mai e quando mi capita di farlo (sempre per mancanza di lucidità) mi giustifico immediatamente e metto in guardia dall’uso sconsiderato di questo termine. Ma dimmi, non sembra anche a te che affrontare la questione semplicemente “non facendo il personaggio” sia una troppo facile via d’uscita? Una soluzione ovvia, stupida financo, e a tratti persino un tantinello sospetta?
Il semplice salire su di una nave, o automobile (per fare un po’ di banalismo) è già condizionante, figuriamoci la scena! La scena è uno dei non luoghi più condizionanti in assoluto. La scena condiziona, cioè costringe a trovare una condizione e “condizione” non ha nulla a che fare con “personaggio”, semmai possiamo dire che cercare un personaggio è uno dei sistemi possibili per trovare una condizione.
Io no so cosa vuol dire la frattura di un menisco in seguito all’intervento maldestro di un difensore. Solo un frequentatore di campi di calcio può saperlo. Dunque voglio rivelare un segreto a chi non è uso frequentare palcoscenici. Ogni qualvolta vedete un attore che in scena è “semplicemente se stesso”, si tratta di una persona che si ingegna nel cercar di simulare una qualche forma di naturalezza, una persona che cinquant’ anni dopo Ibsen e dopo l’autodenuncia di Stanislavskij, ancora perpetra il colossale equivoco del naturalismo. E a noi attori, dopo cinquant’anni, tocca ancora urlare (e qui ci mettiamo un bel megafono) “Bombardiamo la quarta parete, smascheriamo il naturalismo!”
Concludo. Non ricordo chi ha detto: se ogni volta che usiamo una parola, non la sottoponiamo ad una verifica di pensiero, questa parola va gradualmente svuotandosi di senso e (aggiungo io) ad ingrossare il mare magnum del luogo comune.
Ecco alcune parole che forse chiedono maggiore attenzione da parte nostra :
concentrazione
ritmo
presenza
sentimento
movimento
personaggio
essere se stessi
qui e ora
conflitto
recitare
spettacolo
teatro.
Claudio Morganti