Del fare e del creder di fare
Non sono una cosa (anche se a volte mi piacerebbe), sono una persona e continuo ad esserlo anche quando entro in scena. Si, quello che entra “in quel luogo” sono proprio io.
E vedo quel che i miei occhi vedono.
Non posso non rilevare che in teatro viene insistentemente usato il verbo “guardare”, ma io, solo marginalmente e per forza di cose mi occupo di “spettacolo” (spectare, ma anche l’inglese “spectacles”, occhiali), di qualcosa, cioè, che è da vedere.
Io mi occupo più che altro di teatro, il quale trova la sua sede naturale nell’apparato uditivo: è più che altro cosa da ascoltare.
(E poi, in sala vi è comunque un uditorio e giammai un guardatorio.)
Ciò che accade durante una rappresentazione è faccenda che riguarda gli artisti della scena, i quali, in quel frangente, han parecchio da fare.
Proverò a dire cosa.
Il fare e il creder di fare.
Ogni artista è un animale che delimita il suo territorio.
Quel territorio, quella regione, è tutto ciò che l’artista sa: le sue competenze.
La linea di confine di questa regione è il dramma,
È la fascia, è uno scarto.
La scarto tra il conosciuto e l'inconoscibile, ma anche
lo scarto tra ciò che si fa e ciò che si crede di fare.
La fascia è la linea di confine.
Una sorta di terra di nessuno che combacia e si fonde con l’indicibile.
Zona pericolosa, terreno incerto, pieno d'insidie, quasi gassoso.
La parte centrale di questa regione è invece il “consolidato”, sicuro, roccioso.
Il compito (direi il dovere) di un artista dovrebbe essere quello di aggirarsi, in agguato, dentro la fascia di confine e continuamente tentare sortite.
Muoversi sicuri al centro del territorio, evitando l’alea dello sconfinamento, è comportamento di stucchevole prudenza.
Bivaccare al centro della regione (del consolidato) è comportarsi da ignavi.
Tanto più si staziona nei pressi del centro, tanto maggiore è ciò che si “crede di fare”, poiché quanto più si sta al centro del territorio tanto meno è necessario l’ascolto.
L’attore che si compiace nella sua zona centrale è sordo, urla e stona come il peggiore dei cantanti e si sente il migliore degli attori.
Non percepisce il fastidioso ridicolo di se.
Non si vergogna del suo essere umano.
Certo non è un criminale poiché non detiene potere alcuno, ma si approssima, con evidenza, alla dimensione del “bellimbusto” (altrimenti detto “onorevole”).
Compito dell’artista è osar di fallire.
Vivere lo scarto tra la tendenza naturale alla mortale replica e il desiderio di un vivo creare all’impronta. Questo è “conflitto”. Il dramma. La fascia di confine.
Desiderio di creare, o meglio, desiderio di trovarsi in un concatenamento di creazioni.
Sul palcoscenico bisogna rasentare la prima linea e concedersi sortite.
La sortita è spingere in avanti la prima linea.
La sortita è osar di fallire.
Le continue sortite in territorio sconosciuto spingono in avanti la linea di confine, il limite.
Si tratta di piccoli avanzamenti e dunque di grandi gioie.